L’impedimento di consanguineità nel matrimonio canonico

consanguineità
Jan Massys, Lot e le sue figlie, 1565 circa, Musee Municipal, Cognac, Francia

Continua la carrellata di impedimenti al matrimonio canonico, di cui abbiamo già trattato QUI. Per consanguineità si intende la relazione che esiste tra più persone e che si instaura per mezzo del processo generativo [1]. Consanguineo infatti è chi appartiene allo stesso sangue. La definizione di tale rapporto come impedimento matrimoniale nasce dall’esigenza di tutelare la dignità dell’ordine familiare e in vista di una finalità promozionale della famiglia.

I riferimenti nella Sacra Scrittura

Già nell’Antico Testamento venivano proibite determinate unioni. Nel Deuteronomio e nel Levitico veniva espressamente sancito il divieto: “Maledetto chi si unisce con la moglie del padre, perché solleva il lembo del mantello del padre! Tutto il popolo dirà: Amen” (Dt. 27,20); “Nessuno si accosterà ad alcuna sua parente consanguinea per scoprire la sua nudità” (Lv. 18,6). Anche dal Nuovo Testamento emergono chiare indicazioni circa la consanguineità: San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, condanna chi convive con la moglie di suo padre. Pertanto, la Chiesa dei primi secoli distingueva tra unioni lecite e unioni illecite, al fine di proteggere la vita familiare e la moralità della famiglia [2].

Precedenti storici

Da sempre la consanguineità ha costituito un impedimento al matrimonio. Anche se non qualificato come legge, le consuetudini dei popoli lo hanno costantemente reputato come ostacolo al legame matrimoniale [3]. La disciplina vigente distingue tra consanguineità in linea retta e in linea collaterale. Nel diritto romano tale distinzione non esisteva, ma veniva costantemente applicata la regola per cui tanti sono i gradi quante sono le generazioni, escludendo lo stipite comune [4]. In applicazione di questo principio, fratello e sorella erano consanguinei di secondo grado, zio e nipote di terzo grado e i cugini erano consanguinei di quarto grado. La prassi fu recepita da una legge di Teodosio che, nel 384, vietò il matrimonio fino al quarto grado di parentela [5].

L’evoluzione dell’impedimento dai popoli germanici al Concilio di Trento

A partire dall’annessione dei popoli germanici all’Impero Romano, l’impedimento di consanguineità fu notevolmente esteso fino al settimo grado compreso. La Chiesa recepì tale prassi, tanto da mutarla in un vero e proprio divieto normativo ad opera di papa Alessandro II, che stabilì il ricorso al calcolo germanico specialmente nelle questioni ecclesiastiche legate all’istituto del matrimonio [6]. I problemi sorsero quando le città si popolarono e spesso le persone appartenevano agli stessi casati. Ciò determinò una situazione di incertezza e di abusi, che necessitava di una seria riforma. I primi limiti furono introdotti dal Concilio Lateranense IV, che nel 1215 fissò al quarto grado l’impedimento di consanguineità. Sulla stessa linea si pose il Concilio di Trento, che oltretutto ridusse l’impedimento fino al terzo grado in linea collaterale.

La disciplina nel Codice del 1917

Il Codice pio-benedettino recepì la disciplina fino a quel momento vigente. Il can. 1076 § 1 sanciva che “È nullo il matrimonio in linea retta di consanguineità tra tutti gli ascendenti e discendenti sia legittimi che naturali”. § 2 “Nella linea collaterale è nullo fino al terzo grado incluso …”. Il Legislatore del 1917 intendeva così tutelare il rispetto per i vincoli di sangue, proteggere i costumi, favorendo la formazione dei legami tra estranei che contribuiscono a rafforzare i rapporti di amicizia e di solidarietà sociale [7].

La disciplina vigente: il can. 1091 CIC 1983

Nel vigente Codice di Diritto Canonico la consanguineità si calcola per linee e gradi. La linea indica l’insieme di persone che discendono dallo stesso capostipite e può essere: retta, se il rapporto deriva dal capostipite; collaterale, se il rapporto tra i membri è generato dall’avere il capostipite in comune. Il grado indica la distanza da una generazione all’altra tra le persone [8]. A differenza del rapporto di consanguineità, che sorge sempre quando tra i contraenti vi sia un vincolo di sangue, il relativo impedimento si configura solo quando tra i contraenti esista una relazione rientrante nei gradi previsti dalla legge.

La consanguineità è calcolata secondo la prescrizione del can. 108: nella linea retta, tanti sono i gradi quante le generazioni e le persone, escluso il capostipite; nella linea collaterale, si calcolano tanti gradi quante sono le persone in entrambi i tratti delle due linee, che sono in rapporto tra loro [9]. Il can. 1091 § 1 del vigente Codice di Diritto Canonico stabilisce infatti che: “Nella linea retta della consanguineità è nullo il matrimonio tra tutti gli ascendenti e i discendenti, sia legittimi che naturali”; § 2 “Nella linea collaterale il matrimonio è nullo fino al quarto grado incluso”. A differenza della legislazione originaria, il § 3 del canone in esame dispone che l’impedimento di consanguineità non si moltiplica. In caso di dubbio circa un qualunque grado di consanguineità in linea retta o nel secondo grado della linea collaterale, il matrimonio non deve essere celebrato (§ 4).

Natura dell’impedimento e applicazione della dispensa

Il can. 1078 § 3 prevede che non si dispensi mai dall’impedimento di consanguineità in linea retta o nel secondo grado della linea collaterale. Oltre tale riferimento, non esiste altra norma che disciplini la cessazione dell’impedimento in esame. La dottrina ritiene che la consanguineità di primo grado in linea retta è di diritto naturale, pertanto non dispensabile; allo stesso modo quella fino al secondo grado in linea collaterale. In tutti gli altri casi è di diritto ecclesiastico, dunque si applica solo ai battezzati cattolici ed è passibile di dispensa.

Note

[1] L. SABBARESE, Manuale di diritto canonico, Neldiritto Editore, 20221, p. 447 ss.

[2] F. CAPPELLO, Tractatus canonico moralis de sacramentis. De matrimonio, vol. V, Marietti, Torino, 1950, p. 498 ss.

[3] F.X. WERNZ, P. VIDAL, Ius canonicum, Tom. V, Ius matrimoniale, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1925, p. 401 ss.

[4] M. MARRONE, Manuale di diritto privato romano, Giappichelli, Torino, 2004, p. 243 ss.

[5] K.E. BOCCAFOLA, Gli impedimenti relativi ai vincoli etico-giuridici tra le persone: affinitas, consanguinitas, publica honestas, cognatio legalis, in AA.VV., Gli impedimenti al matrimonio canonico, LEV, Città del Vaticano, 1989, p. 207 ss.

[6] F.R. AZNAR GIL, El Nuevo Derecho Matrimonial Canónico, Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca, 1985, p. 267 ss.

[7] A. BOGGIANO PICO, Il matrimonio nel diritto canonico, Utet, Torino,1936, p. 260 ss.

[8] A. D’AURIA, Gli impedimenti matrimoniali, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2007, p. 183 ss.

[9] V. DE PAOLIS, A. D’AURIA, Le norme generali. Commento al codice di diritto canonico. Libro primo, UUP, Città del Vaticano 2014, p. 329 ss.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”

(San Giovanni Paolo II)

 

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