L’impedimento di precedente vincolo coniugale: il can. 1085

precedente vincolo

Il precedente vincolo coniugale è disciplinato dal can. 1085 CIC tra gli impedimenti al matrimonio canonico, di cui abbiamo già trattato QUI. Pertanto, se una parte già legata da precedente matrimonio valido, anche se non consumato, celebra un nuovo matrimonio, contrae invalidamente. Lo scopo di questa previsione legislativa, ossia la tutela della proprietà essenziale dell’unità del matrimonio (can. 1056), è ricostruibile dalla storia dell’impedimento a partire dal Vecchio e Nuovo Testamento.

Le fonti nella Sacra Scrittura

Nelle Sacre Scritture il matrimonio è ricondotto ad un originario intervento del Creatore: «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24). L’unione coniugale acquista un significato salvifico, diventando una concreta espressione dell’alleanza tra Dio e il popolo eletto [1]. É l’una caro (Mt 19,3-6) il vincolo di unione tra l’uomo e la donna, più vincolante degli stessi vincoli di sangue, un vincolo fisico ma anche metafisico [2]. In questo senso si comprende la natura monogamica del matrimonio canonico: la fedeltà tra l’uomo e la donna richiama la fedeltà tra Dio e il popolo eletto. La dottrina di Gesù, poi, dà prosecuzione alla prospettiva veterotestamentaria, mettendo in luce l’originario disegno di Dio. Anche San Paolo riprenderà l’antico simbolismo del matrimonio come espressione dell’alleanza tra Dio e il popolo eletto, inserendolo nella nuova economia della salvezza: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per leiquesto mistero è grande» (Ef 5,22-32).

Dal diritto romano agli interventi della Chiesa

Le novità evangeliche predicate dai Padri della Chiesa legavano il valore della monogamia alla procreazione della prole. Su questi fondamenti il diritto romano contribuì a rafforzare la tutela giuridica dell’unione, proibendo la poligamia in quanto prassi del tutto estranea ai costumi romani [3]. Le dispute dottrinali in materia si riaccesero nel XVI secolo con la contrapposizione tra la teoria calviniana, che proibiva la poligamia in quanto prescrizione di diritto naturale, e la teoria luterana, che tollerava invece la pratica [4]. Tuttavia, la tutela dell’unità del vincolo prevalse sugli orientamenti contrapposti, dando rilevanza al principio monogamico del matrimonio canonico [5]. L’esigenza della Chiesa di tutelare anzitutto l’unità del vincolo coniugale si evinceva non soltanto dalle norme emanate per disciplinare l’impedimento in esame, ma anche dall’eventuale attività istruttoria, tesa ad accertare lo scioglimento del vincolo precedente.

A riguardo occorre menzionare l’Istruzione della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio del 13 maggio 1858. Essa stabiliva che l’Ordinario avrebbe potuto consentire ad una parte nuove nozze, qualora avesse avuto certezza assoluta della morte del primo coniuge attraverso un atto pubblico rilasciato dall’autorità ecclesiastica o da quella civile o, in mancanza, attraverso la presenza di due testimoni, che avevano conosciuto di persona il defunto, deponendo in modo concorde su luogo e causa di morte. In loro assenza sarebbero stati sufficienti anche testimoni che avevano soltanto sentito dire della morte del soggetto. Valido elemento di prova era altresì la notorietà dell’evento, comprovata con giuramento da due testimoni degni di fede. L’extrema ratio sarebbe stata costituita da presunzioni e altre circostanze, dalle quali potersi desumere la morte della persona assente [6].

La disciplina dell’impedimento nel Codice del 1917

L’impedimento in esame era già qualificato come tale nel Codice pio-benedettino. Il can. 1069 § 1 CIC 1917 prevedeva che «Attenta invalidamente al matrimonio chi è legato dal vincolo di un matrimonio precedente, anche se non consumato, salvo privilegio fidei». La disciplina giuridica del Codice previgente intendeva vietare la poligamia e la poliandria, in quanto contrarie al diritto naturale: nel caso di unioni tra un uomo e più donne o tra una donna o più uomini vi sarebbero state incertezze riguardo alla prole e i matrimoni successivi al primo sarebbero stati nulli, anche se il primo fosse stato soltanto rato mentre gli altri anche consumati [7]. Pertanto, ai sensi dell’abrogato can. 1069 CIC 1917, l’impedimento sussisteva in presenza di un precedente matrimonio che non fosse stato dichiarato nullo, che fosse stato rato (a nulla rilevando la sua non consumazione), che non fosse stato sciolto per cause naturali, come la morte, o per disposizioni legislative in applicazione del privilegio paolino [8].

Il § 2 del can. 1069 sanciva invece che: «Quantunque il matrimonio precedente sia, per qualunque causa, nullo o sciolto, non per questo è lecito contrarne un altro prima che si sia constatata legittimamente e con certezza la nullità o lo scioglimento del precedente». Il legislatore prevedeva dunque che la fine del precedente matrimonio doveva essere provata con certezza morale, circostanza che poteva aversi con una dichiarazione autentica di nullità matrimoniale fatta dalla Santa Sede o dall’Ordinario del luogo oppure da una conoscenza legittima dello scioglimento del primo matrimonio. La disciplina previgente era poi completata dal can. 2356, che qualificava infames coloro che avessero contratto un altro matrimonio, anche solo civile, in pendenza del primo, incorrendo nella sanzione della scomunica o dell’interdizione personale, a seconda della gravità del reato.

Il can. 1085 CIC 1983

La disciplina dell’abrogato Codice sembra essere stata recepita nella sua interezza dal Codex del 1983. Il can. 1085 § 1 sancisce che «Attenta invalidamente al matrimonio chi è legato dal vincolo di un matrimonio precedente, anche se non consumato». La previsione di tale impedimento trova il proprio fondamento nella proprietà dell’unità del matrimonio canonico: l’unitas, di cui al can. 1056, richiede che il matrimonio sia contratto tra un solo uomo e una sola donna, che diventano marito e moglie, ed esclude ogni forma di poligamia e poliandria [9]. Scopo del legislatore è tutelare il consortium totius vitae, che si configura all’atto della celebrazione del matrimonio con la formazione di una coppia definitiva ed esclusiva [10].

Pertanto, chi è legato da un precedente vincolo, anche se non consumato, è inabile a contrarre un nuovo matrimonio. L’impedimento è assoluto, non dispensabile e di diritto naturale, obbligando tutti, cristiani e non cristiani [11]. Anche la previsione di cui al § 2 del can. 1085 ricalca quella del precedente Codice. Essa ribadisce che, anche se il precedente matrimonio sia nullo o sciolto, ciò non legittima a contrarne uno nuovo prima che sia stata constata con certezza la nullità o lo scioglimento del precedente. Inoltre, perché l’impedimento sussista, occorre che il primo matrimonio sia valido, a prescindere dalla sua consumazione, e che non sia venuto meno per morte di uno dei coniugi o per dispensa pontificia.

Se vi siano dubbi sulla validità del primo vincolo, non è possibile contrarre nuove nozze, perché prevale il principio del favor matrimonii, di cui al can. 1060. Chi invece è legato solo da un precedente matrimonio civile, non è soggetto all’impedimento e può contrarre matrimonio canonico anche qualora non abbia ottenuto il divorzio. In tal caso, tuttavia, è necessaria la licenza dell’Ordinario del luogo secondo il can. 1071 § 1 n°. 3. Il Codice vigente non riprende le pene previste dalla norma pio-benedettina: coloro che si sposano violando il can. 1085 sono tuttavia considerati pubblici peccatori e, vivendo tale condizione di peccato, non sono ammessi all’eucarestia.

Note

[1] P. MONETA, Il matrimonio nel diritto della Chiesa, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 11 ss.

[2] L. LIGIER, Il matrimonio: questioni teologiche e pastorali, Città nuova, Roma, 1988, p. 156 ss.

[3] T. DORAN, L’impedimentum ligaminis (c. 1085 CIC), in AA.VV., Gli impedimenti al matrimonio canonico, LEV, Città del Vaticano, 1989, p. 163 ss.

[4] A. BOGGIANO PICO, Il matrimonio nel diritto canonico, Editrice Torinese, Torino, 1936, p. 217.

[5] F.X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, Tom. V, Ius matrimoniale, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1925, p. 282 ss.

[6] F.M. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de sacramentis, vol. V, De matrimonio, Marietti, Torino 1950, p. 398 ss.

[7] A.M. ABATE, Il matrimonio nella nuova legislazione canonica, Paideia, Roma-Brescia, 1985, p. 466 ss.

[8] P. GASPARRI, Tractatus canonicus de matrimonio, vol. I, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano, 1937, p. 630 ss.

[9] L. SABBARESE, Il matrimonio canonico nell’ordine della natura e della grazia. Commento al Codice di Diritto Canonico, Libro VI, Parte I, Titolo VII, UUP, Città del Vaticano, 2019, p. 212.

[10] W. KASPER, Teologia del matrimonio cristiano, Queriniana, Brescia, 1985, p. 46 ss.

[11] J. HENDRINKS, Diritto matrimoniale. Commento ai canoni 1055-1065 del Codice di diritto canonico, Áncora, Milano, 1999, p. 56 ss.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”

(San Giovanni Paolo II)

 

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Federico Gravino

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