I criteri di riforma del Libro VI del CIC

Criteri di riforma

Il nuovo libro VI, come spiega il Sommo Pontefice nella costituzione apostolica Pascite gregem Dei, è il frutto del lavoro di esperti, ma anche di una significativa consultazione, ne abbiamo già dato notizia QUI. La bozza di revisione si estendeva anche al processo penale, ma dal 2019 è stata stralciata la corrispondente parte. In ogni caso, il diritto sostanziale ha avuto una integrale revisione. Degli 89 canoni del Libro VI ne sono stati modificati 63 (il 71%), spostati altri 9 (10%) e ne rimangono immutati solo 17 (19%)[1].

Primo criterio

Il primo criterio direttivo che ha guidato le attuali modifiche è stato l’adeguata determinatezza delle norme penali, che ha portato a ridurre l’ambito di discrezionalità lasciato in sede applicativa e a specificare alcune fattispecie delittuose. Non figurano più reati puniti solo con pena facoltativa, ma resta, nei casi stabiliti, la possibilità di comminare delle sanzioni aggiuntive a quelle obbligatoriamente previste. Pur essendo rimasta la tipologia delle pene indeterminate, esse sono state ridotte, poiché in alcuni casi si sono precisate le sanzioni da considerare, spesso indicando i riferimenti alle pene espiatorie o alle censure, oppure puntualizzando fino a quale punizione si può giungere[2].

Secondo criterio

Il secondo criterio di riforma tocca il senso dello strumento sanzionatorio, affinché concorra a proteggere la comunità, ponendo attenzione alla riparazione dello scandalo e al risarcimento da parte del reo. Si valorizza ad esempio il ricorso al precetto penale (can. 1319 §2) che permette di calibrare in modo celere ed efficace sul singolo individuo la sanzione da comminare in caso di violazione.

Can. 1319 – §2. Se, dopo aver diligentemente soppesato la cosa, sia necessario imporre un precetto penale, si osservi quanto è stabilito nei cann. 1317-1318.

Si è data inoltre particolare attenzione alla riparazione del danno, sia ponendola quale condizione necessaria per la remissione della pena (can. 1361 §4), sia prevedendola espressamente come obbligo da imporre in conseguenza di certi reati a prescindere alla sanzione comminata (ad esempio i cann. 1377, 1378).

Can. 1361 – §4. Non si deve dare la remissione finché, secondo il prudente giudizio dell’Ordinario, il reo non abbia riparato il danno eventualmente causato; costui può essere sollecitato a tale riparazione o alla restituzione, con una delle pene di cui al can. 1336, §§2-4, e ciò vale anche quando gli viene rimessa la censura a norma del can. 1358, §1.

Can. 1377 – §1. Chi dona o promette qualunque cosa per ottenere un’azione o un’omissione illegale da chi esercita un ufficio o un incarico nella Chiesa, sia punito con una giusta pena a norma del can. 1336, §§2-4; così chi accetta i doni e le promesse sia punito proporzionalmente alla gravità del delitto, non escluso con la privazione dell’ufficio, fermo restando l’obbligo di riparare il danno.

§2. Chi nell’esercizio di un ufficio o di un incarico richiede un’offerta al di là di quanto stabilito o somme aggiuntive, o qualcosa per il suo profitto, sia punito con un’ammenda pecuniaria adeguata o con altre pene, non esclusa la privazione dall’ufficio, fermo restando l’obbligo di riparare il danno.

Can. 1378 – §1. Chi, oltre ai casi già previsti dal diritto, abusa della potestà ecclesiastica, dell’ufficio o dell’incarico sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione dell’ufficio o dell’incarico, fermo restando l’obbligo di riparare il danno.

§2. Chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui o scandalo un atto di potestà ecclesiastica, di ufficio o di incarico, sia punito con giusta pena, a norma del can. 1336, §§2-4, fermo restando l’obbligo di riparare il danno.

Questi aspetti tornano pure al can. 1324 §3 ove si stabilisce che, pur in presenza di circostanze attenuanti nei delitti puniti con pena latae sententiae, che in tal caso fungono da esimenti, possono comminarsi altre penitenze al fine del ravvedimento o della riparazione dello scandalo[3].

Can. 1324 – §3. Nelle circostanze di cui al §1, il reo non incorre nella pena latae sententiae, tuttavia possono essere inflitte al medesimo pene più miti oppure gli si possono applicare delle penitenze al fine del ravvedimento o della riparazione dello scandalo.

Terzo criterio

Il terzo criterio che ha guidato la revisione, riguarda i mezzi preventivi per correggere dei comportamenti pericolosi prima che giungano a configurare delle condotte delittuose magari anche gravi. Sono stati rafforzati i rimedi penali, finora poco utilizzati, prevedendo tra di essi non solo l’ammonizione e la riprensione, rimasti invariati nel contenuto, ma anche il precetto penale e la vigilanza (cann. 1339 §§4-5). Si stabilisce che l’Ordinario imponga il precetto penale quando siano stati esperiti inutilmente i primi due rimedi o non si possa attendersi da esso alcun effetto. La vigilanza non viene definita, ma si dice che venga disposta mediante un decreto singolare quando lo richieda la gravità del caso, soprattutto verso chi si trova nel pericolo di ricadere nel delitto.

Can. 1339 – §4. Se, una o più volte, siano state fatte inutilmente a qualcuno ammonizioni o correzioni, o se non si possa attendere da esse alcun effetto, l’Ordinario dia un precetto penale, nel quale si disponga accuratamente cosa si debba fare o evitare.

§5. Se lo richieda la gravità del caso, e soprattutto nel caso in cui qualcuno si trovi in pericolo di ricadere nel delitto, l’Ordinario, anche al di là delle pene inflitte a norma del diritto o dichiarate mediante sentenza o decreto, lo sottoponga ad una misura di vigilanza determinata mediante un decreto singolare.

Infine, tra le principali novità normative, in linea con i criteri appena esaminati, va indubbiamente segnalata a tutela del diritto di difesa, l’esplicita formalizzazione della presunzione di innocenza, ai sensi del can. 1321 §1, finora normativizzata solo nel VELM (art. 12 par. 7)[4].

Can. 1321 – §1. Chiunque è ritenuto innocente finché non sia provato il contrario.

Non è dunque l’accusato che deve provare la sua innocenza, ma è l’autorità che procede che deve provare la sua colpevolezza. È lo stesso principio del can. 1526 §1[5] applicato al processo penale. Qui viene ribadito questo concetto. Chi deve provare il fatto è l’attore, non il convenuto. In questo caso è il Promotore di Giustizia che deve dimostrare la colpevolezza dell’imputato. Inoltre, a differenza del VELM, il CIC aggiunge “finché non sia provato il contrario”. Verrebbe da chiedersi, quando si può ritenere che sia provato il contrario. Basta la condanna in primo grado? In questo caso, il suddetto inciso indica un’espressione che dovrebbe essere intesa nel contesto di un legittimo procedimento a cui consegua un provvedimento definitivo, poiché fino a tale fase si estende la presunzione[6].

Bibliografia

[1] Cfr. J.I Arrieta, Conferenza stampa sulle modifiche al Libro VI del Codice di Diritto Canonico, 1.06.2021, p. 4.

[2] P. Dal Corso, L’evoluzione del diritto penale canonico nella normativa successiva al codice del 1983, in “Il diritto penale al servizio della comunione della Chiesa”, Quaderni della Mendola, vol. 29, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Milano 2021, p. 143.

[3] P. Dal Corso, L’evoluzione del diritto penale canonico nella normativa successiva al codice del 1983, p. 144.

[4] Art. 12 – Svolgimento dell’indagine – §7. Alla persona indagata è riconosciuta la presunzione di innocenza.

[5] Can. 1526 – §1. L’onere di fornire le prove tocca a chi asserisce.

[6] P. Dal Corso, L’evoluzione del diritto penale canonico nella normativa successiva al codice del 1983, p. 145.

 

Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit

(San Giovanni Paolo II)

 

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Maria Cives

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