Renato Natali, Nubifragio, olio su tela, prima metà del ‘900
Il prossimo mese di dicembre saranno passati nove anni dal Rescritto del 7-12-2015, emanato da Papa Francesco il giorno prima dell’entrata in vigore del m. p. Mitis Iudex. Questo provvedimento stabilisce al numero II. 3 che «Dinanzi alla Rota Romana non è ammesso il ricorso per la nova causae propositio, dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione».
Il disposto non era interamente nuovo, dal momento in cui il Rescritto ex audientia Sanctissimi dell’11-2-2013, che concedeva al Decano della Rota Romana alcune facoltà speciali, prevedeva che «Dinanzi alla Rota Romana non è possibile proporre ricorso per la “nova causae propositio”, dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico». In un certo senso, il Rescritto del 2015 ha mitigato il tenore delle facoltà del 2013, dal momento in cui permette l’esperibilità della doglianza in caso di manifesta ingiustizia. Rimangono però aperte alcune questioni, che seppure non hanno riscontrato una particolare attenzione, rimangono tutt’oggi oggetto di qualche riflessione.
In primo luogo
Il disposto menziona unicamente la Rota Romana, omettendosi qualsiasi riferimento ad altri tribunali locali di appello potenzialmente competenti per trattare una causa in terzo grado (pensando fondamentalmente al can. 1681 CIC, che menziona expressis verbis il tribunale di terzo grado quale tribunale competente per la nuova proposizione della causa, forse in deroga alla previsione del can. 1644, questione anche dibattuta sulla quale però non possiamo ora soffermarci).
Per l’ambito latino si pensa alla Rota spagnola, al Primate dell’Ungheria o al tribunale di Friburgo riguardo a cause di Colonia appellate a Münster. Sulla questione ebbe occasione di pronunciarsi Mons. Llobell, proprio commentando le facoltà dal 2013 QUI. Interrogativi simili riguarderebbero eventualmente i tribunali delle chiese patriarcali nell’ambito orientale. Di conseguenza, sembrerebbe che il tribunale universale di appello avrebbe una competenza più ristretta di quella di cui sarebbero titolari questi altri fori, cosa che meriterebbe magari un aggiustamento normativo.
In secondo luogo
La qualifica giuridica della doglianza – seppure malgrado qualche giustificabile titubanza iniziale – non dovrebbe destare dubbi: si tratta di una nuova proposizione della causa i cui requisiti non sono più le nuove e gravi prove o argomenti ma la manifesta ingiustizia della pronuncia. Com’è ovvio, la locuzione «a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione» rimanda come luogo parallelo alle fattispecie recensite nel can. 1645, § 2 CIC (De iniustitia autem manifesto constare non censetur, nisi….).
Di conseguenza, è ragionevole pensare che le condizioni di esperibilità possano venire mutuate dai motivi tassati che giustificano la restituzione in integro (occorrerà aspettare alla giurisprudenza rotale per capire il contenuto che si dà alla previsione del Rescritto, ovvero, se si ripropongono le condizioni di cui al can. 1645 CIC o si opta per un contenuto autonomo), ma non sembra ammissibile ritenere che il Rescritto ammetta la restitutio in integrum nel caso di nuove nozze canoniche di una delle parti.
Convince di questo il tenore letterale del disposto, che qualifica il rimedio come nuova proposizione della causa e non come restituzione. A ciò si aggiunge che proprio perché continua ad essere nuova proposizione della causa essa sarà esperibile quovis tempore (altrimenti, la doglianza sarebbe esperibile soltanto entro i termini – 3 mesi, con diverso dies a quo a seconda del motivo – previsti per la restituzione), in corrispondenza con l’assodato principio secondo cui le cause sullo stato delle persone non passano in giudicato, e non ammettono dunque restituzione in integro.
In terzo luogo
Si adopera la locuzione «matrimonio canonico». Rimane da chiarire quale sarebbe la ragione per cui un successivo matrimonio «non canonico», che addirittura abbia dato luogo a prole, non dovrebbe godere a questo punto della stessa qualifica. Pensiamo ad una donna battezzata che si sposò con un uomo battezzato; il matrimonio fu poi dichiarato nullo, e la donna convola a nozze con un non battezzato, celebrando un matrimonio religioso o un matrimonio civile senza chiedere dispensa della forma canonica, dal quale poi nasce prole.
In questo caso, dato che il successivo matrimonio può qualificarsi come «non canonico» (addirittura nullo per inosservanza della forma canonica a cui è tenuta la donna), sarebbe esperibile la nuova proposizione della causa a norma dei cann. 1644 e 1681 CIC, senza che operi la preclusione del Rescritto? Non si cerca di affermare una equipollenza indistinta e banale tra due realtà che – perdipiù anche sacramentalmente – sono diverse, ma ci si chiede se il bene giuridico che cercava di tutelare sia la facoltà del 2013 sia la sua versione affievolita del 2015 non richieda anche di offrire identica tutela ad eventuali unioni familiari nate anche da matrimoni «non canonici». Magari la giurisprudenza aiuterà a capire la portata di quest’inciso.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
©RIPRODUZIONE RISERVATA