L’ordinazione del matrimonio al bonum prolis e la fattispecie della sua esclusione

matrimonio
Jusepe de Ribera, Adorazione dei pastori, 1650 ca., Concattedrale di Santissima Maria Assunta e San Catello, Castellammare di Stabia

L’ordinazione del matrimonio al bene della prole

Il can. 1055 § 1 individua nel bonum coniugum e nella generazione ed educazione della prole le realtà cui il matrimonio sacramento è ordinato. Da un lato, quindi, rileva come il termine adoperato dal Legislatore “ordinazione” evochi l’essenza e la natura peculiare del matrimonio tra battezzati, dall’altro, il Magistero ecclesiastico insegna come il fine procreativo rappresenti la massima forma di perfezionamento dell’amore sponsale [1].

Gli sposi, quindi, nella realizzazione del bonum coniugum, che si declina anche attraverso l’unione corporale, divenendo una caro, sono chiamati a cooperare perché il progetto divino generativo di una nuova vita si compia [2]. Così come la stessa Giurisprudenza rotale insegna, infatti: “I coniugi non possono davvero raggiungere un’espressione più personalizzata del loro amore reciproco se non partecipando insieme a un atto (comunemente chiamato atto coniugale), il cui frutto e pienezza risiede precisamente nella terza persona” [3].

Alla luce di quanto detto, quindi, i nubenti che arrivino alla scelta matrimoniale non possono né modificare, né frazionare l’oggetto del patto coniugale, che si compone anche dei suoi fini essenziali, tra i quali vi è quello procreativo. Allo stesso tempo, proprio perché, come rilevato, la generazione della prole attiene alla essenza stessa del matrimonio sacramentale, nell’Ordinamento canonico opera una presunzione iuris tantum, in forza della quale si ritiene che le parti che vogliano celebrare un vero matrimonio ne accettino anche il fine procreativo.

La simulazione parziale del consenso per esclusione del bonum prolis

Non sono tuttavia infrequenti i casi in cui uno o entrambi i contraenti rifiutino la celebrazione di un vero matrimonio, conforme ai principi della Dottrina, arrivando essi ad escludere tale elemento essenziale. Segnatamente, l’ipotesi della esclusione del bene della prole rientra nell’alveo della cd. simulazione parziale del consenso. La cifra caratteristica di tale fattispecie simulatoria, e comune alle altre previste dall’ordinamento canonico, è la discrepanza sussistente tra quanto il nubente dichiara all’atto della manifestazione del consenso nuziale e quanto, invece, alberga nel suo animo.

Nella fattispecie della esclusione della prole, quindi, da un lato, uno o entrambi i nubenti dichiarano davanti a Dio e agli uomini di volersi unire in un vero matrimonio; dall’altro, internamente, rifiutano di far cadere il proprio consenso anche su tale elemento essenziale, escludendo un progetto di fecondità. Differentemente da quanto avviene nella ipotesi della simulazione totale del consenso, in cui la parte rifiuta il matrimonio in sé, arrivando a celebrare un mero simulacro, per assenza a monte dell’intentio contrahendi, nella simulazione parziale la parte stessa accetta e vuole il matrimonio, ma ad essa manca tuttavia la cd. voluntas se obligandi rispetto al detto fine essenziale.

Evidentemente, tale fattispecie di simulazione parziale rende irrito il consenso coniugale, con un conseguente effetto invalidante del matrimonio, ai sensi del can. 1101 § 2. Di centrale rilevanza nel contesto simulatorio è la natura dell’atto da cui l’esclusione nasce. Sul punto, la predetta norma contiene il concetto di “atto positivo di volontà”. Se, come noto, il valido consenso nuziale è il prodotto della armonica cooperazione dell’intelletto e della volontà, allo stesso modo l’atto simulatorio-escludente dovrà coinvolgere la ferma volontà della parte, la quale, rappresentandosi la possibilità di celebrare un valido matrimonio, fermamente rifiuta ciò, aderendo a un modello di patto coniugale individualista, divergente rispetto a quello previsto dal Diritto.

Con l’uso della terminologia latina, ben si comprende come il livello di fermezza della volontà necessario nell’atto positivo escludente non sia soddisfatto dal mero nolle, richiedendosi in capo al simulante la maturazione di un vero e proprio velle non, espressione di un livello di intenzionalità ferma e radicata che richiama alla “positività della negazione” [4].

La differenza tra la esclusione del diritto e del suo esercizio

Nello specifico contesto della simulazione parziale per esclusione del bonum prolis, è di centrale rilevanza la distinzione tra esclusione del diritto e del suo esercizio. Evidentemente la prima ipotesi, ossia quella della exclusio iuris, ha senz’altro portata invalidante sul consenso nuziale, in quanto essa incide sulla essenza del patto coniugale, laddove la parte, con la ferma intenzione di non obbligarsi, rifiuta il diritto-dovere nei confronti dell’altro coniuge al compimento degli atti idonei alla procreazione.

Laddove, invece, una o entrambe le parti accettino esso bene della prole, avendo quindi la intentio se obligandi, ma nel proprio animo manchi l’intenzione di adempiere a tale diritto-dovere, sussiste l’esclusione dell’esercizio del diritto. Con riferimento a tale ipotesi, la Dottrina e la Giurisprudenza canonica sono tendenzialmente concordi nel ritenere che la nullità del matrimonio sussista allorquando l’esercizio del diritto sia escluso perpetuamente ovvero a tempo indeterminato, poiché anche in questo caso a essere intaccata sarebbe l’essenza del patto coniugale; al contrario, una esclusione dell’esercizio del diritto posta solo per un determinato periodo di tempo (spesso per il perseguimento di interessi rilevanti per l’Ordinamento canonico, tra cui, a titolo esemplificativo, quello della genitorialità responsabile) non determinerebbe sic et simpliciter la nullità del matrimonio.

Occorre tuttavia precisare che, laddove la esclusione dell’exercitium iuris tantum ad tempus si accompagni alla esclusione della indissolubilità, ovvero, al contrario, il suo esercizio sia posto sotto condizione, ben potrebbe verificarsi la invalidità del vincolo.

La prova dell’atto positivo di volontà escludente

L’origine della simulazione giuridicamente rilevante, come detto, è da rinvenirsi nell’atto positivo di volontà escludente il bene della prole, che, quindi, costituisce l’oggetto della indagine istruttoria nell’abito di un processo di nullità matrimoniale. In particolare l’atto di volontà positivo andrà dimostrato attraverso il noto schema della prova diretta e della prova indiretta, cui si aggiungono le circostanze. La prova diretta si sostanzia nella confessione giudiziale e stragiudiziale del presunto simulante della propria positiva intenzione escludente, che in sede processuale transiterà attraverso le dichiarazioni delle parti e di testimoni degni di fede, che abbiano conosciuto i fatti di causa in tempo non sospetto, ossia prima della presentazione del libello.

La prova indiretta, invece, si articola nella causa simulandi, ossia in quell’insieme di ragioni che hanno portato la parte ad escludere il bene della prole e, quindi, a prestare un consenso simulato. Essa, a sua volta, si compone della causa simulandi remota, che consta di quell’insieme di circostanze non necessariamente riconducibili al rapporto di coppia, attinenti all’educazione familiare, ai trascorsi di vita della parte e alla sua indole; e di quella prossima, rappresentata, al contrario, da tutte quelle evenienze correlate al contesto della relazione tra coniugi e delineatisi a partire dal momento della scelta matrimoniale.

La causa simulandi acquisisce adeguato peso probatorio qualora risulti essere grave e proporzionata, prevalendo in questo modo sulla causa contrahendi. Da ultimo, alla prova diretta e indiretta, si accompagnano le circostanze antecedenti, concomitanti e susseguenti alla celebrazione del matrimonio e alla rottura del coniugio, dalle quali si potrà desumere l’effettivo intento simulatorio. Tra le circostanze rilevanti nello specifico contesto della esclusione della prole, senz’altro va considerata la prassi contraccettiva della coppia, la cui natura e durata, dall’inizio della vita coniugale, può corroborare l’assunto simulatorio.

Note

[1] Cfr. Const. Past. Gaudium et Spes, n. 50;

[2] Cfr. Ad. Ap. Familiaris Consortio, n. 14;

[3] Coram Vaccarotto, sent. diei 9 iulii 2014, RRDec., vol. CVI, p. 205, n. 7.

[4] Coram Burke, sent. diei 19 octobris 1995, RRDec., vol. LXXXVII, p. 559, n. 6.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”

(San Giovanni Paolo II)

 

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Carlotta Marciano di Scala

Avvocato in foro civile, dottoranda in diritto canonico.

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