L’impedimento di impotenza nel matrimonio canonico

Impotenza
Vasily Vladimirovich Pukirev, olio su tela, 1862, galleria statale Tretyakov, Mosca

Il vincolo coniugale che si instaura tra uomo e donna non si esaurisce alla sfera emotiva, intellettiva e volitiva, ma richiede un rapporto fisico tra i nubendi. Essi devono essere in grado di compiere l’atto sessuale, unirsi e dare compimento all’una caro che contraddistingue il matrimonio canonico. L’unione carnale degli sposi consente infatti di distinguere questo tipo di rapporto da altri tipi di vincoli, amicali o di altra natura, che possono instaurarsi tra due persone [1]. Pertanto, qualora uno degli sposi non sia in grado di compiere l’atto sessuale, si parla di impotenza. Essa, per tradizione, è considerata un impedimento di diritto naturale. Non è dunque dispensabile e la conseguente celebrazione di un matrimonio canonico è sempre nulla.

Tentativi di disciplina nei primi secoli della Chiesa

Non esistono riferimenti storici certi in ordine alla configurazione giuridica dell’impedimento di impotenza. Tuttavia, la prassi del diritto romano disponeva lo scioglimento del vincolo coniugale in caso di sterilità di una delle parti. Invece, in presenza di impotenza da parte dell’uomo, alla donna veniva concesso di passare a nuove nozze, a condizione che l’impedimento del marito fosse stato provato con il giudizio di Dio, nella speranza che l’intervento divino dirimesse le questione più dubbie [2].

Con le Decretali di Alessandro III e Clemente III tali unioni furono ritenute valide, nel senso che le persone sposate con impotenti non potevano separarsi ma dovevano vivere come fratello e sorella. A partire dal XIII secolo, le Decretali di Gregorio IX qualificarono l’impotenza come causa di nullità del matrimonio e distinsero tra frigidi, ossia coloro che erano incapaci di realizzare la copula per cause naturali e il cui impedimento era assoluto, e maleficiati, persone divenute impotenti a seguito di maledizioni e il cui impedimento era relativo ad una certa donna.

Il can. 1068 CIC 17

Nell’abrogato Codice di Diritto Canonico l’impedimento di impotenza era disciplinato dal can. 1068: “§1. L’impotenza antecedente e perpetua, sia da parte dell’uomo sia da parte della donna, sia conosciuta all’altra parte che non, sia assoluta che relativa, per sua stessa natura rende nullo il matrimonio. §2. Se l’impedimento di impotenza è dubbio, sia per dubbio di diritto sia per dubbio di fatto, il matrimonio non deve essere impedito. §3. La sterilità non proibisce né dirime il matrimonio”.

Tuttavia, l’impedimento non era stato definito da un punto di vista giuridico e ciò aveva generato confusione dottrinale nell’individuare precisamente le ipotesi che davano luogo alla nullità del vincolo matrimoniale [3]. La dottrina contemporanea al Codice del 1917 sosteneva che l’impedimento di impotenza si configurava in assenza degli organi richiesti per la copula carnale o, seppur presenti, essi presentavano anomalie per cause di natura fisica o psichica [4].

Il Legislatore pio-benedettino prevedeva solo l’impotenza cöeundi come dirimente per il matrimonio. Il requisito giuridico rilevante era infatti la copula perfecta, ossia l’atto indispensabile per la realizzazione del processo generativo [5]. Gli elementi comuni tra legislazione precedente e attuale trovavano una differenza nella dimensione conoscitiva dell’impedimento. L’impotenza, fosse stata conosciuta o meno all’altra parte, rendeva comunque nullo il matrimonio.

L’intervento della Congregazione per la Dottrina della Fede

L’avanzare delle conoscenze mediche fece emergere dubbi circa un aspetto rilevante della consumazione del matrimonio. Si rifletteva infatti sulla natura del liquido seminale, sulla sua capacità di generare la prole e, in caso contrario, sulla sua idoneità a configurare l’impedimento di impotenza. Da un lato, la giurisprudenza rotale riteneva che l’uomo fosse potens, se in grado di produrre verum semen, cioè quello prodotto nei testicoli e in grado di generare prole: ciò comportava che gli uomini carenti di testicoli e i vasectomizzati, sia per cause di natura congenita che per intervento chirurgico, non potessero contrarre un valido matrimonio.

Dall’altro, l’allora Congregazione del Sant’Ufficio riteneva invece validi i matrimoni contratti dagli uomini vasectomizzati. Tale scontro interpretativo fu analizzato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Con decreto del 13 maggio 1977, essa stabilì che non era impotente l’uomo che non può emettere liquido elaborato nei testicoli, affermandosi la sufficienza del seme ordinario per la consumazione del matrimonio, a prescindere dalla natura del liquido [6].

Il can. 1084 CIC 83

Il can. 1084 CIC 83 dispone che: “§1. L’impotenza copulativa antecedente e perpetua, sia da parte dell’uomo sia da parte della donna, assoluta o relativa, per sua stessa natura rende nullo il matrimonio. §2. Se l’impedimento di impotenza è dubbio, sia per dubbio di diritto sia per dubbio di fatto, il matrimonio non deve essere impedito né, stante il dubbio, dichiarato nullo. §3. La sterilità né proibisce né dirime il matrimonio, fermo restando il disposto del can. 1098”.

La norma in esame disciplina l’impedimento di impotenza copulativa, ossia l’incapacità sia da parte dell’uomo che da parte della donna, di compiere in modo umano, cioè volontariamente e liberamente, l’atto sessuale consumativo e idoneo alla generazione della prole e per il quale i coniugi diventano una caro. L’impotenza può essere organica, detta anche strumentale o anatomica, se consiste nell’assenza o in un difetto di conformazione o di sviluppo anatomico degli organi genitali, oppure funzionale, quando si hanno disfunzioni degli organi copulatori, causate da morbose forme del sistema cerebro-spinale o da blocchi psichici, innescati da fobie o da altre fattispecie inibitorie dell’atto sessuale [7].

Per la sua rilevanza giuridica, occorre che l’impotenza sia antecedente al momento della manifestazione del consenso costitutivo del vincolo coniugale, nonché perpetua, ossia deve esistere nel momento costitutivo del consenso, in modo da non poter essere curata con mezzi ordinari. Inoltre, si richiede che essa sia moralmente certa, capace cioè di escludere ogni tipo di dubbio sia in fatto che in diritto: in tal caso, infatti, il matrimonio non può essere né impedito né dichiarato nullo.

Impotentia cöeundi e impotentia generandi: l’ipotesi della sterilità

Già in sede di revisione del Codice, il Coetus chiarì che l’impotentia cöeundi è cosa ben distinta dalla sterilità o impotentia generandi, la quale non dà luogo al suddetto impedimento [8]. La sterilità non dirime, né proibisce il matrimonio, salvo che sia causa di errore doloso (can. 1098): in tal caso, il matrimonio sarebbe nullo per vizio del consenso, non per impedimento, in quanto il silenzio ovvero l’inganno sulla sterilità causerebbe nell’altra parte un errore su una qualità della persona che per sua stessa natura potrebbe portare grave turbamento alla vita coniugale [9].

Il fondamento del canone in esame è chiaro: chi è incapace all’atto coniugale consumativo non può neppure conseguire la reciproca e totale donazione delle persone, che è l’essenza del patto coniugale. Dunque, si tratta di un impedimento di diritto naturale, pertanto non dispensabile [10].

Interpretazione evolutiva dell’impedimento e il principio del favor matrimonii

Il concetto di impotenza, così come recepito nella legislazione vigente, ha ampliato il diritto al matrimonio sia dell’uomo che della donna. Sono infatti consentite le nozze sia alle donne prive di utero o di ovaie, sia all’uomo privo di testicoli o che abbia i canali deferenti occlusi o interrotti: ciò si giustifica con la tradizionale distinzione tra azione umana e azione della natura, intendendo con la prima l’atto intimo sessuale che unisce anche fisicamente i coniugi e con la seconda l’insieme delle altre condizioni anatomiche e funzionali necessarie a che l’amplesso coniugale porti alla trasmissione della vita [11].

Note

[1] P. MONETA, Il matrimonio nel diritto della Chiesa, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 61 ss.

[2] F. WERNZ, P. VIDAL, Ius Matrimoniale, vol. V, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1928, p. 248 ss.

[3] L. SABBARESE, Il matrimonio canonico nell’ordine della natura e della grazia. Commento al Codice di Diritto Canonico, Libro VI, Parte I, Titolo VII, UUP, Città del Vaticano, 2019, p. 206 ss.

[4] A. DE SMET, Tractatus theologico-canonicus de sponsalibus et matrimonio, Beyaert, Brugis, 1927, p. 478 ss.

[5] P. PELLEGRINO, L’impedimento di impotenza nel matrimonio canonico, Giappichelli, Torino, 2004, p. 9 ss.

[6] A. D’AURIA, Gli impedimenti matrimoniali, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2007, p. 68 ss.

[7] G. CABERLETTI, Gli impedimenti matrimoniali, in M.J. ARROBA CONDE (a cura di), Manuale di diritto canonico, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2014, p. 195 ss.

[8] F.R. AZNAR GIL, El nuevo derecho matrimonial canonico, Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca, 1985, p. 213 ss.

[9] R. SANTORO, Il dolo (can. 1098), in R. SANTORO, C. MARRAS (a cura di), I vizi del consenso matrimoniale canonico, UUP, Città del Vaticano, 2012, p. 87 ss.

[10] L. CHIAPPETTA, Il Codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, EDB, Bologna, 20113, p. 317 ss.

[11] A.M. ABATE, Il matrimonio nella nuova legislazione canonica, Paideia, Roma-Brescia, 1985, p. 86 ss.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Federico Gravino

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