Il Consiglio evangelico della Povertà

IRPEF

Il canone 600 CIC

Il Consiglio evangelico della povertà, «ad imitationem Christi, qui propter nos egenus factus est cum esset dives» [1], così come espresso dal Codice pone il consacrato nella condizione di chi vive in sobrietà operosa, senza indulgenze per i beni terreni, i quali, in forza del voto di povertà vedono limitazioni nell’uso e soprattutto nella dipendenza. Ogni Sodale potrà disporre dei propri averi secondo le prescrizioni del Diritto universale e proprio. Il distacco richiesto ai membri degli Istituti di Vita consacrata testimonia che la vita terrena non è quella definitiva, ma solo transitoria: esprime la testimonianza del Regno [2]. Il can. 600 C.I.C. esprime una povertà di fatto, ma anche di spirito che il Religioso è chiamato a vivere in forza del voto professato.

Certamente, la dimensione economica svolge un ruolo significativo nella vita degli Istituti religiosi, come pure (e soprattutto) nell’apostolato degli Istituti stessi: essa è intimamente connessa con la persona e la missione. Attraverso l’economia passano scelte molto importanti per la vita, nelle quali deve trasparire la testimonianza evangelica, attenta alle necessità delle persone che si incontrano nel proprio cammino. La chiave ermeneutica che fa vivere in prospettiva escatologica il Consiglio evangelico della povertà espresso nel can. 600 C.I.C. è l’imitazione del Cristo povero: l’ attenzione alla dimensione evangelica dell’economia non deve, pertanto, essere trascurata, soprattutto nella dinamica formativa, in modo particolare nella preparazione di coloro che avranno responsabilità di governo o che dovranno gestire le strutture economiche in ordine ai principi di gratuità, fraternità e giustizia, in modo da porre le basi di un’economia evangelica di condivisione e di comunione [3]. Il fondamento del Consiglio evangelico di povertà, dunque, così come espresso dal Codice di Diritto canonico ha un fondamento eminentemente cristologico: nell’imitazione di Cristo si radicano i principi della vita povera secondo il Vangelo: giacché il fondamento è di carattere divino, i criteri di comprensione della povertà non possono descriversi solo orizzontalmente o con una interpretazione meramente socio-economica, ma avendo come modello la libera scelta, volontariamente effettuata, di chi da ricco si fece povero per attuare il piano di salvezza del Padre; alla luce di ciò il perfetto compimento del Consiglio evangelico di povertà si esprime nell’oblazione di tutto ciò che è proprio [4], in modo che a Dio possa consacrarsi non già solo la realtà della propria carne, ma di ogni cosa che si possiede per vivere «in operose sobrietate» [5]. Non tutti i consacrati, tuttavia, vivono la povertà allo stesso modo: ognuno la vive ed esercita secondo il proprio Carisma che regola, limita e determina l’utilizzo dei beni [6].

Le declinazioni del consiglio evangelico della povertà

Il Consiglio evangelico di povertà, dunque, educa a utilizzare in modo oculato i mezzi di cui si dispone per realizzare gli obiettivi apostolici propri di ogni Carisma. A titolo personale non si posseggono proprietà o conti economici, evitando così di accumulare beni inutili che distolgano dalla missione propria dell’Istituto. Non è una povertà fine a sé stessa, bensì orientata alla missione. Di volta in volta si analizza l’utilizzo e la ricerca migliore delle risorse da impiegare. Lo stile di vita sobrio impedisce l’autosufficienza e promuove un atteggiamento di apertura e accoglienza verso le novità che il cammino della Vita consacrata propone. Circa la professione del Consiglio evangelico di povertà possiamo avanzare una riflessione ulteriore: la preoccupazione della sicurezza personale potrebbe facilmente allontanare dal lavoro apostolico; per questo motivo la professione della povertà non è un voto di pauperismo, ma un voto di libertà. Liberandosi delle cose terrene ci si può più facilmente preoccupare delle cose del Regno, della predicazione e dell’apostolato. Cristo era povero, ma non mancava di nulla [7]: così i Superiori non siano avari, a nessun membro dovrà mancare il necessario e nessuno dovrà godere del superfluo. A tal fine è pure necessario che si dia aiuto a coloro che amministrano i beni della Comunità, e questi da parte loro devono essere coscienti che il denaro che amministrano non è di loro proprietà, bensì di tutti e che devono rispondere di esso [8].

Aspetti civilistici ed ecclesiasticistici

In ragione di quanto detto, tuttavia sembra utile rivolgere l’attenzione ad alcuni aspetti collegati al voto di povertà ed all’eventualità, sempre più ricorrente, di un Religioso inserito in realtà ministeriali assimilate al lavoro (spesso) dipendente. La questione non semplice di una possibile implicazione del sindacato del giudice civile soprattutto in materia di cessazione del rapporto lavorativo ad intra rispetto all’Istituto dovrà assolvere, anzitutto, alla verifica del rispetto delle garanzie procedimentali che presiedono all’emanazione del provvedimento spirituale o disciplinare. Non solo, competerà allo stesso giudice, in esito, all’effettuato controllo, il potere (ovvero il dovere) di dichiarare civilmente inefficaci i provvedimenti emanati in spregio alle regole procedimentali o in contraddizione con i diritti costituzionalmente garantiti e di condannare, se del caso, l’autorità ecclesiastica al risarcimento dei danni subiti dal Religioso a seguito del provvedimento ritenuto «illegittimo». L’art. 23 cpv. del Trattato lateranense non costituisce, allora, soprattutto alla luce del novum ius di cu al punto 2, lettera e) del  Protocollo addizionale, un riconoscimento del vincolo gerarchico ecclesiastico oppure una conferma che sui Religiosi la Chiesa abbia esclusiva potestà di giurisdizione con efficacia anche nell’ordinamento dello Stato [9].

È dunque un ambito delicato e controverso quello delle implicazioni civilistiche connesse al voto di povertà professato dal soggetto all’interno dell’Ordinamento canonico. In particolare laddove dovesse verificarsi una dimissione dell’interessato e la conseguente doverosa risoluzione delle questioni connesse alla sua posizione all’interno dell’Istituto di ascrizione. Alla risoluzione in sede canonica spesso si fa seguire quella in sede civile  che potrebbe vedere una eventuale condanna dell’Autorità ecclesiastica al risarcimento del Religioso dimesso che prestava la propria opera all’interno dell’Istituto. Fatta salva la normativa canonica in materia, sembrerebbe, dinanzi alla normativa civilistica, prevalere la posizione del “cittadino” rispetto a quella del “Religioso”. È dunque auspicabile sempre una risoluzione dell’iter di dimissione in senso dialogico-conciliativo, piuttosto che di netta opposizione. Un iter che blindi i provvedimenti dell’Autorità in maniera tale che possano risultare sempre corretti anche nelle eventuali implicazioni civilistiche salvaguardando l’autorevolezza e scongiurando una eventuale responsabilità risarcitoria [10].

Note bibliografiche

[1] Can. 600 C.I.C.

[2] Cfr. L. Navarro, Aspetti canonici, pag. 23.

[3] Cfr. At 4, 32-35; inoltre per una trattazione più dettagliata della tematica, si veda: Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di vita apostolica, Lettera circolare: Linee orientative pero la gestione dei beni negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, Città del vaticano 2014, pagg. 5-6.

[4] Cfr. Paulus PP. VI, Perfectæ Caritatis, n. 26.

[5] Can. 600 C.I.C.

[6] Per uno sguardo più approfondito alla tematica dell’utilizzo dei beni negli Istituti religiosi regolato e determinato dal Carisma proprio, si veda: Aa.Vv., Povertà evangelica, missione e vita consacrata, Venezia 2016.

[7] Cfr. L. Navarro, Aspetti canonici, pagg. 22-23.

[8] Anche per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di vita apostolica valgono i prescritti del Libro V del Codice di diritto canonico, in particolare sembra opportuno sottolineare quanto prescritto dal can. 1284 C.I.C., ovvero che ogni amministratore deve gestire i beni affidati alla sua cura con la perizia e la diligenza del buon padre di famiglia.

[9] Cfr. R. Botta, La condizione giuridica dei religiosi nell’Ordinamento italiano, Modena 1991.

[10] Cfr. C. Lanni, Procedimenti amministrativi disciplinari e ius defensionis, Città del Vaticano 2020.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

 

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Cristian Lanni

Nato nel 1994 a Cassino, Terra S. Benedicti, consegue, nel 2013 la maturità classica. Iscrittosi nello stesso anno alla Pontificia Università Lateranense consegue la Licenza in Utroque Iure nel 2018 sostenendo gli esami De Universo Iure Romano e De Universo Iure Canonico. Nel 2020 presso la medesima università pontificia consegue il Dottorato in Utroque Iure (summa cum laude) con tesi dal titolo "Procedimenti amministrativi disciplinari e ius defensionis", con diritto di pubblicazione. Nel maggio 2021 ha conseguito il Diploma sui "Delicta reservata" presso la Pontificia Università urbaniana, con il Patrocinio della Congregazione per la Dottrina della Fede e nel novembre 2022 il Baccellierato in Scienze Religiose presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, presso cui è iscritto ai corsi per la Licenza. Dal luglio 2019 è iscritto con nomina arcivescovile all'Albo dei Difensori del Vincolo presso la Regione Ecclesiastica Abruzzese e Molisana, operante nel Tribunale dell'Arcidiocesi di Chieti, dal settembre dello stesso anno è docente presso l'Arcidiocesi di Milano. Nello stesso anno diviene Consulente giuridico presso Religiosi dell'Arcidiocesi di Milano. Dal giugno 2020 è iscritto con nomina arcivescovile all'Albo degli Avvocati canonisti della Regione Ecclesiastica Lombarda. Dal 2021 collabora con il Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano Sardo e come Consulente presso vari Monasteri dell'Ordine Benedettino. Dal 13 novembre 2022 è Oblato Benedettino Secolare del Monastero di San Benedetto in Milano. Dal 4 luglio 2024 è membro dell'Arcisodalizio della Curia Romana.

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