Pietro da Cortona, trionfo della Divina Provvidenza, 1632-1639, Roma, palazzo Barberini
Valutazioni introduttive
Sarebbe opportuno dissipare l’inesatto e diffuso convincimento che riduce le coordinate redazionali della perizia canonica in un’area prettamente scientifica. Non a caso si utilizza il termine riduzione, che meglio esprime quella compressione di valori – propri sia al matrimonio sacramento sia alla visione cristiana di persona – se si commette l’errore di considerare dato isolato o squisitamente opzionale il criterio antropologico cristiano. Esso, al contrario, rappresentando una linea di netta demarcazione tra perizia comune e perizia canonica, permette di distinguere quest’ultima dalla prima per la funzione d’ausilio alla formulazione del giudizio pro rei veritate. E infatti, ragioni di necessità della verità oggettiva non consentono che si prescinda da una visione dell’uomo più ampia, in confronto a quella che, per scienza medica, si intende.
Con ciò non vogliamo creare il fraintendimento secondo cui, nel giudizio canonico per incapacità, si attribuisce un ruolo marginale al tecnicismo peritale; sarebbe infatti una tesi assurda, atteso anche il preminente ruolo che le scienze psicologiche e psichiatriche hanno assunto, contribuendo all’evoluzione della Giurisprudenza Rotale. Tuttavia, non si può non esortare a che i periti espletino con rigore il proprio ufficio, producendo in atti valutazioni cliniche la cui trama venga armonicamente intessuta secondo criteri scientifici e antropologici ben coordinati tra loro.
Ma cosa si intende per antropologia cristiana? Concretamente di cosa parliamo?
Qui di seguito, si cercherà di fornire brevi spunti teorici e pratici su una questione tanto importante quanto spesso trascurata.
La visione personalistica del matrimonio canonico
Preliminarmente, deve essere ben chiaro il passaggio epocale che si è avuto dopo il Concilio Vaticano II, che ha segnato una notevole svolta rispetto al modo di concepire il matrimonio e, nello specifico, l’unione tra l’uomo e la donna. Alla visione romanistica del matrimonio si sostituisce infatti quella sacramentale, che pur riconoscendo il valore giuridico degli elementi e delle proprietà essenziali che lo compongono, ne esalta tuttavia la dimensione personalistica. Non a caso, infatti, sotto il profilo terminologico il termine contractus, di stampo prettamente patrimoniale e tendente a sottolineare il sinallagma tra le parti, cede il passo all’attuale foedus matrimoniale che, mentre da un lato ribadisce l’innegabile matrice contrattuale del vincolo, al contempo ne evidenzia la dignità di sacramento, cui è elevato il vincolo al momento della celebrazione.
L’innovativo diritto matrimoniale canonico, ispirandosi dunque al pensiero di San Giovanni Paolo II, concepisce la persona nella sua totalità[1], valorizzandone di conseguenza la possibilità di miglioramento e di crescita, resa possibile attraverso il rapporto con l’altro coniuge; e proprio in questo risiede la visione antropologica cristiana, che si sostanzia in una accettazione, realistica e consapevole, circa i limiti e i condizionamenti dell’uomo, creatura imperfetta. Partendo dunque da questi presupposti teologici, che richiedono un costante sacrificio per la integrazione sentimentale, vanno respinte tutte quelle teorie scientifiche che, a causa di un processo di idealizzazione dell’uomo, assimilano la mera difficoltà matrimoniale ad una incapacità ad assumere gli oneri coniugali[2].
Ciò, oltre a costituire un rischio notevole, perché significherebbe esigere un grado di maturità e di capacità ad adempiere già perfetto all’atto del consenso, espone a seri rischi il sacramento, la cui declaratoria di nullità discenderebbe dalla sola valutazione di sussistenza del vizio di consenso. Diversamente, il diritto matrimoniale canonico, aderendo perfettamente al criterio oggetto d’esame, restringe il più possibile l’area delle incapacità matrimoniali, limitandone l’incidenza ai fini della nullità attraverso il criterio di antecedenza e di gravità. Quest’ultima, infatti, renderebbe nullo in consenso solo nel caso di vera impossibilità ad instaurare un’unione con la comparte, escludendo i casi in cui, in un’ottica di perfezionamento e di impegno coniugale progressivo, essa sia comunque suscettibile di miglioramento.
Rilievi pratici sul criterio antropologico cristiano: breve illustrazione di una sentenza rotale
In una coram Pinto del 23 novembre 1979, per quanto datata, si esaminano le valutazioni mediche del professore G. Iona e del professore Callieri, rispettivamente perito d’ufficio e perito di parte, nella causa in cui era accusata la nullità per grave difetto di discrezione di giudizio e incapacità ad assumere gli oneri matrimoniali, da parte convenuta. Nello specifico, il perito nominato ex officio nel giudizio di prima istanza aveva rilevato, nel convenuto, uno sviluppo della personalità definito abnorme e paranoicale, tanto da incidere sulla capacità di prestare un valido consenso. Sulla diagnosi, diversamente si esprimeva il professore Callieri, che riteneva doversi escludere la patologizzazione del convenuto – perché essa non era identificabile con una psicosi o psicopatia – , spiegandone altresì il comportamento attraverso dinamiche psicologiche, non escludendo però con ciò una evidente problematica nell’uomo.
Sebbene vi fossero delle divergenze sulla dinamica metodologica da adottarsi, i due periti convenivano tuttavia sulla esclusione della capacità a prestare un valido consenso, sostenendone, da un lato, il professore Iona la immaturità psico-affettiva e sessuale impediente la assunzione dei compiti maritali, mentre dall’altro, il professore Callieri rinveniva una incapacità critica, per ragioni di insufficiente maturità intellettiva e volitiva, che rendevano il convenuto incapace ad amare e a integrarsi sessualmente con la comparte.
Senz’altro, se si seguissero le sole coordinate scientifiche, tralasciando l’antropologia cristiana, per la sola presenza di tali conclusioni mediche, quasi sicuramente, si protenderebbe per una sentenza affermativa circa la invalidità del consenso. Al contrario, i Giudici, si pronunciarono negativamente sul dubbio concordato, motivando il convincimento morale sulla base di una, seppur minima, presenza di capacità dell’uomo di obbligarsi alla relazione coniugale interpersonale, non essendo necessario che essa sia perfetta[3].
Pertanto, può dirsi che siano avverse al criterio della antropologia cristiana le correnti scientifiche di matrice naturalistica e deterministica che riducono il comportamento umano ad un complesso di moti pulsionali; di fatto, il diverso modo di intendere il matrimonio e l’uomo influenza il giudizio del perito, che spesso concepisce in modo distorto la libertà di scelta, la distinzione tra difficoltà e incapacità, nonché la valutazione sulla sessualità[4].
Conclusioni
Alla luce di quanto espresso, bisogna inoltre riconoscere un’inaccettabile prassi comune per cui i periti, il più delle volte, presentano i propri elaborati clinici come prodotti ispirati al criterio dell’ antropologia cristiana, quando basterebbe confrontarne i contenuti per notare la difformità da esso. Il superamento di questo problema di non lieve entità potrebbe finalmente ottenersi richiedendo come obbligatorio il costante aggiornamento da parte dei periti, con corsi specifici per la conoscenza sostanziale della metodologia da adottare nei giudizi canonici.
Corsi di aggiornamento o periodi di formazione sarebbero utili per un proficuo monitoraggio sulla attività degli esperti clinici. Investire infatti nella formazione degli operatori dei tribunali non è cosa di poco conto, specie se tale formazione risulta funzionale al progresso e alla corretta applicazione della delicata disciplina matrimoniale canonica.
Bibliografia
[1] F. Bersini, Il Diritto Canonico Matrimoniale, Elle Di Ci (1994), p. 7.
[2] San Giovanni Paolo II, Discorso agli officiali e avvocati della Rota Romana, 27 gennaio 1997, n. 4.
[3] L’immaturità psico-affettiva nella giurisprudenza della Rota Romana, Libreria Editrice Vaticana (1990), pp. 42,43.
[4] G. Zuanazzi, Psicologia e Psichiatria nelle cause matrimoniali canoniche, Libreria Editrice Vaticana (2006), pp. 330-331.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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