Il can. 1548, § 2 CIC stabilisce «che sono liberati dal dovere di rispondere» due categorie di soggetti, che in estrema sintesi sono: (1) coloro che sono tenuti a qualche tipo di segreto o dovere di riservatezza per il munus esercitato, la professione svolta o il dovere di mantenere il segreto d’ufficio; (2) coloro che dalla propria testimonianza temono un pericolo fisico o morale per sé o per alcune persone a loro vincolate.
La domanda che si pone è come procedere nel caso in cui un soggetto non incapace a testimoniare (cfr. can. 1550 CIC), ma che potrebbe avvalersi dell’esenzione dell’obbligo di testimoniare per rientrare in alcuna delle categorie di cui al can. 1548, § 2 CIC, decide comunque di rinunciare all’esenzione, rendendosi disponibile per testimoniare.
Di primo acchito, sembrerebbe che, mentre l’incapacità a testimoniare (cfr. can. 1550, § 2 CIC) opera con indipendenza della volontà del soggetto (nemo dat id quod non possidet, etsi vult), l’esenzione sarebbe un diritto al quale potrebbe liberamente farne rinunciare il titolare (volenti non fit iniuria). Tuttavia, un’impostazione del genere presenterebbe, ad un esame più circospetto delle diverse fattispecie, alcune criticità che cerchiamo di evidenziare, con qualche proposta che non pretende di essere una risposta definitiva alle problematiche.
Obbligo di riservatezza che non può essere disatteso
In ciò che riguarda le cause di esenzione di cui al can. 1548, § 2, 1o CIC, la rinuncia all’esenzione potrebbe collidere con alcuni beni giuridici tutelati dall’obbligo di riservatezza. Immaginiamo il caso in cui, in una causa, il padre spirituale di un seminario, pur informato che può avvalersi dell’esenzione dell’obbligo di testimoniare nella causa che riguarda un seminarista che con lui si confidava nell’accompagnamento spirituale, decide di rinunciare all’esenzione e manifesta la disponibilità per testimoniare.
Oppure il caso in cui un professionista, senza la liberatoria, manifesta che comunque lui intende non avvalersi dell’esenzione. In questi casi, non si ha a che fare solo con la rinuncia a un’esenzione (in abstracto oggetto di disposizione da parte del titolare), ma con soggetti che stanno manifestando la sua disponibilità a non ottemperare a un dovere di riservatezza a cui sono tenuti giuridicamente a volte a norma di legge: mentre possono rinunciare all’esenzione, non possono non rinunciare al dovere che su di loro incombe di ottemperare a questa riservatezza.
In questi casi, il giudice potrebbe trovarsi dinanzi ad una prova potenzialmente illecita (cfr. can. 1527, § 2 CIC), e sarebbe giustificata la sua non ammissione o la sua espunzione se essa era stata già ammessa, motivando il decreto. L’illiceità del mezzo di prova si fonda nella compromissione di un dovere legale, che non può cessare per la nuda volontà dell’obbligato.
Una chiave interpretativa per risolvere il quesito
L’unica possibilità per fondare questo rifiuto sarebbe dimostrare (forse in sede di ricorso ex can. 1527, § 2 CIC) che l’obbligo di riservatezza è decaduto perché colui il quale ne beneficia ha concesso volontaria ed espressamente la liberatoria (vg., il seminarista ha autorizzato il padre spirituale a deporre, la paziente curata dal medico concede la liberatoria).
Tuttavia, anche in questi casi occorrerebbe riflettere ulteriormente, perché alcune situazioni non sono concepibili come rapporti strettamente privati, ma coinvolgono aspetti legati a dimensioni alquanto pubbliche, persino anche se il beneficiato conceda la liberatoria, sarebbe da chiedersi se pur così dovrebbe ammettersi una testimonianza del genere (ad esempio, nell’accompagnamento spirituale in un seminario). D’altro lato, il beneficiato potrebbe talvolta sentirsi obbligato a concedere la liberatoria, pensando che qualora non lo faccia esso potrebbe venire interpretato come un indizio che gli cagionerebbe danno. Infine, è da valutare se, pur ammettendo la liberatoria volontaria e tutelata del beneficiato, la deposizione del teste andrebbe contro codici deontologici od etici in ambito socio-civile.
In ciò che riguarda le cause di esenzione di cui al can. 1548, § 2, 2o CIC, si potrebbe ammettere che il beneficiato per l’esenzione rinunci ad essa, anche se «(…) dalla propria testimonianza temano per sé o per il coniuge o per i consanguinei o gli affini più vicini infamia, pericolosi maltrattamenti o altri gravi mali».
Lasciando da parte il fatto che qui sembrano considerarsi solo persone fisiche e non persone giuridiche che potrebbero anche subire infamia o lesioni di tipo morale, anche qui è opportuno fare delle distinzioni. Il titolare dell’esenzione potrebbe rinunciare ad essa quando è lui il potenziale destinatario dell’infamia, dei maltrattamenti o di altri gravi mali. Tuttavia, quando i potenziali afflitti sono altri soggetti, il giudice sarebbe chiamato ad un’attenta valutazione.
La legge presuppone che in generale un soggetto cerca di evitare condotte che possono recare pregiudizio alle persone a lui più vicine, ma potrebbero esserci dei casi in cui un soggetto decide di condursi in un modo che oggettivamente può recare siffatti pregiudizi, forse perché ritiene che vi è un bene maggiore da proteggere o perché non valuta adeguatamente i potenziali danni.
In questi casi, il giudice sarebbe chiamato ad un attento vaglio, per capire se oggettivamente vi è un rischio potenziale accertato che riguarda altri soggetti: se il beneficiato dall’esenzione sembra disinteressarsene in modo doloso o negligente, o se dimostra una scarsa valutazione dei pericoli, il giudice potrebbe considerare la possibilità di rigettare o espungere, quale illecita, la testimonianza (cfr. can. 1527, § 2 CIC), a meno che non possa assicurare una deposizione in modo tale che si evitino i pericoli di cui sopra. Il rischio di questa lettura è estrapolare i doveri del giudice, che verrebbe ad ergersi in un tutore di beni extra processuali al quale si chiede di tutelare ben aldilà di ciò che da lui ci si può aspettare.
Per contemperare questo non infondato rischio, molto si dovrebbe affidare all’adeguata valutazione del giudice (con l’apertura di un incidente se è necessario), interpretando che in dubbio standum est pro liceitate e motivando con rigore il provvedimento di rigetto.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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