Aligi Sassu, l’adultera, il giudice, la Maddalena, il Vescovo, olio su tela, 1955
Tradizionalmente il processo è separato dalla procedura. Non esiste una definizione unanime di processo. Etimologicamente, il termine processo deriva dal verbo latino procedere, che significa andare avanti. Nel linguaggio comune, il processo è l’istanza davanti ad un giudice. È il maestro a decidere in base allo ius o meglio per impiegare le parole di Arena è la persona destinata ad enunciare la volontà della legge o meglio, il giudice è la persona che ha la pienezza del potere giurisdizionale, in quanto non sia affidata ad altri organi, la sua funzione prevalente e più delicata è la decisione riguardante una controversia tra due o più parti [1]. In poche parole, si potrebbe definire il processo come una controversia portata davanti al giudice o al tribunale. Quattro fasi compongono il processo canonico: la fase introduttiva, fase istruttoria, fase dibattimentale e fase decisoria. Questo contributo si soffermerà prevalentemente sui poteri del giudice nella fase introduttiva del processo.
Definizioni della locuzione “poteri del giudice”
La potestà giudiziale, di cui sono forniti i giudici (can. 135 § 3), ha come scopo la realizzazione del processo, che è un rapporto giuridico, non statico bensì dinamico, in cui alle esigenze del bene pubblico e ai diritti delle parti corrispondono i doveri e poteri del giudice [2]. Il processo canonico è un processo misto, ossia nell’ordinamento processuale canonico vigono il principio inquisitorio e quello dispositivo [3]. Prima di evidenziare i poteri del giudice nell’introduzione della causa, è necessario capire cosa s’intenda con l’espressione poteri del giudice. Quest’ultima, indica in diritto canonico come in diritto civile, il potere giurisdizionale esercitato dal giudice. “L’ufficio del giudice si scompone in officium giurisdizionale, officium solemne e officium deserviens” [4]. Questi poteri si esercitano mediante l’emissione di vari provvedimenti da parte del giudice.
I poteri del giudice nell’introduzione dell’istanza, l’esame del libello
Cominciamo col dire che le norme che regolano i poteri del giudice e delle parti nell’ordinamento canonico si basano sul principio fondamentale della domanda (cann. 1452 § 1; 1501, 1502, 1620, 4°), espresso dalla massima nemo iudex sine actore. In virtù di questo principio, nell’ordinamento canonico, il potere di azione prevale sull’esercizio del potere giurisdizionale, cosicché l’impulso iniziale del processo è sempre la domanda della parte. La massima nemo iudex sine actore, che ha un significato simile all’altra ne procedat iudex ex officio, è completata dalle altre massime sententia debet esse conformis libello e ne eat iudex ultra petita partium. È importante fare una precisazione su queste tre massime. In primo luogo, l’attività giurisdizionale può essere avviata solo su richiesta della parte interessata, cioè ogni giudice deve agire su richiesta.
In secondo luogo, la determinazione concreta dell’interesse di cui si chiede il soddisfacimento al giudice rientra nel potere esclusivo delle parti (iudex ne procedat ex officio); l’attore, attraverso la domanda, e il convenuto, attraverso la resistenza, fissano i limiti dell’oggetto del procedimento e il giudice non ha il potere di modificare alcuni dei suoi elementi: le parti, la causa o l’oggetto della richiesta. Infine, il giudice deve essere coerente con i limiti imposti dalla domanda e dalla resistenza (iudex ne eat ultra vel extra petita partium). Il fatto che il giudice proceda iuxta alligata et probata, e non ultra petita, è garanzia della terzietà contraddittoria e imparziale del giudice (cc. 1448-1451; 1456): l’osservanza delle indicazioni renderà i singoli atti iuxta legem, cioè conformi allo spirito e alla norma della legislazione ecclesiastica, che fin dall’inizio ha voluto avere un’impostazione giuridica (c. 221).
Nel Codice di Diritto Canonico, infatti, si è passati dal concetto di potere giuridico – soggettivo e paternalistico – alla nozione di funzione – soggettiva e garantista – che sottolinea l’aspetto teleologico e deontologico, le istituzioni, le attività e le posizioni giuridiche che vengono designate e coordinate per attuare i fini stabiliti dall’ordinamento giuridico [5]. Le quali, se da un lato significano che non c’è un giudice se non c’è un attore (e quindi che non c’è un processo se non c’è una domanda giudiziale), dall’altro esprimono che il giudice non ha il diritto di pronunciarsi su questioni che non sono state oggetto di una domanda di parte. Nella fase iniziale del processo, il principio dispositivo è pienamente e assolutamente dominante e il principio inquisitorio è completamente escluso, cioè il giudice non è autorizzato a pronunciarsi su questioni che non gli sono state sottoposte dalle parti. L’istanza è un prerequisito per la trattazione del caso da parte del tribunale.
L’oggetto della domanda
L’espressione “oggetto della domanda” si riferisce, com’è noto, al thema decidendum sottoposto al giudice per la decisione, cioè al contenuto dell’azione intentata come appare nel libellus. Nella fase introduttiva, il giudice deve limitarsi a dare il nomen iuris ai fatti della domanda e alla risposta contenuta nell’atto di citazione, senza esagerare nella valutazione del fumus [6] o fissare il dubbio secondo la propria preferenza o (forse) imperizia sulle cause di nullità. Infatti, l’assoluta necessità di garantire l’indipendenza del giudice, la sua estraneità rispetto alla materia del contendere, implica che il principio dispositivo sia uno degli elementi essenziali sine qua non del processo.
Tuttavia, da un punto di vista genetico, o logico, il principio dispositivo presuppone la previa instaurazione del rapporto processuale tra le parti e il giudice e quindi, così inteso, tale principio non è in grado di giustificare l’atto iniziale con cui l’attore invoca il ministero del giudice, anche se il libellus comporta chiaramente un atto di disposizione. Una volta ricevuto il libello dal tribunale, il Vicario giudiziale costituisce il giudice unico o il collegio di giudici per giudicare la causa, secondo le prescrizioni del canone 1425. Quindi affida la causa al giudice costituito. Il giudice competente per l’esame della petizione che avvia il procedimento, secondo le novità introdotte dall’istruzione Dignitats Connubii, è il presidente del collegio.
L’articolo 119 della Dignitas Connubii stabilisce che: § 1 Il presidente, accertato che la questione è di competenza del suo tribunale e che il richiedente ha la legittima capacità di essere giudicato, deve, quanto prima, con il suo decreto, ammettere o respingere il libello (can. 1505, § 1). § 2 Prima di fare ciò, il praeses deve chiedere il voto del difensore del vincolo: 1)Se è competente in base alla legge; 2) Se il ricorrente ha la capacità di stare in giudizio; 3) Se sono state rispettate le disposizioni del can. 1505 n°1-3. Se dal libello risulta chiaramente che la richiesta non ha fondamento e che nessun fondamento emergerà dal processo.
Nel can. 1709 del vecchio Codice era scritto: “iudex vel tribunal”, dove per “tribunal” si intendeva l’intero collegio. Data la difficoltà di riunire l’intero collegio per una causa minore, divenne prassi comune che il vicario giudiziale (officialis) respingesse il libello nel caso di un tribunale collegiale, pur consentendo all’attore di appellarsi al collegio in quanto tale. Questa procedura è stata ora canonizzata nel nuovo Codice, con una differenza: non è il vicario giudiziale ma il presidente del collegio l’unico a poter esaminare il libello. Alcuni autori [7] parlano di un giudizio sommario preliminare che, in termini formali, si riferisce alla competenza e alla capacità processuale dell’attore e, in termini materiali, riguarda il fatto giuridico affermato dall’attore nel libello (petitum et causa petendi) e i fatti e le prove addotte a sostegno. Altri ritengono che l’esame è stato suggerito sia dalla necessità di esaminare i casi che arrivano in tribunale, sia dal fatto che la maggior parte dei libelli assume la forma di uno sfogo, di natura descrittiva, piuttosto che di una vera e propria diffamazione. Ci sono due modi per ammettere un libello: con un decreto giudiziario (can. 1505, § 1), o ipso iure per assoluta inerzia del giudice (can. 1506).
Nel primo caso, il giudice ammette la domanda con decreto entro un mese dal giorno in cui la domanda è stata presentata al tribunale dalla cancelleria. Il secondo caso è una nuova forma di ammissione, che forse sarebbe meglio rimanesse poco utilizzata. Infatti, a parte la gravità del comportamento di un giudice che non si pronunciasse, come la legge e la sua coscienza gli impongono di fare, il verificarsi di una simile ipotesi comporterebbe alcune difficoltà. È chiaro che il libello verrebbe ammesso ope legis, senza nemmeno un esame preventivo. Ma qual è il quid iuris se il libello manca di elementi essenziali? Il giudice potrebbe esigere che venga integrato nel decreto di citazione in iudicium, o nella causa stessa? Questa ammissione perentoria, di cui ai canoni 1506 e 1507 § 2, dovrebbe quindi rimanere più che altro una minaccia dissuasiva per il giudice. Come si vede, siamo in presenza di talune norme, che urgono già la celerità del processo.
La reiezione del libello e i motivi
Se il libello viene respinto, si deve tenere conto del fatto che l’enumerazione precedente deve essere intesa come imperativa in quanto preceduta dalla particella tantum (can.1505§2) e deve essere interpretata in senso stretto in quanto inserita in una norma che contiene una restrizione all’esercizio dei diritti (can.18). Pertanto, la natura perentoria dei motivi esclude innegabilmente la possibilità di respingere il libello per motivi diversi da quelli espressamente e tassativamente previsti.
Il fatto che la giurisprudenza consideri questa impossibilità come una disposizione di legge e non come una semplice procedura significa che, ai sensi del can. 1645 § 2 n. 4, sarà possibile un’azione di restitutio in integrum laddove il giudice abbia disatteso questa disposizione e, di conseguenza, abbia reso nulla una sentenza già emessa e passata in giudicato. Sia il rigetto che l’ammissione della domanda devono sempre avvenire con decreto del presidente del collegio, come previsto dal canone 1501 § 1 e dall’articolo 119 della Dignitas Connubii.
In sintesi, i possibili motivi di rigetto del libellus sono i seguenti: l’incompetenza del giudice o dell’organo giurisdizionale; l’indiscutibile incapacità dell’attore di stare in giudizio; l’assenza di qualsiasi indicazione del giudice coram quo, della domanda, dell’attore, nonché l’assenza di una firma dell’attore o del procuratore, con la data precisa, del luogo di residenza dell’attore o del procuratore o del luogo di residenza al momento della ricezione degli atti giudiziari. Inoltre, vi è un’evidente mancanza di motivazione della domanda, che può essere dedotta dal libellus stesso, senza che sia possibile prevedere che tale motivazione possa emergere nel corso del procedimento.
Rilievi conclusivi
Il processo ha inizio (can.1501) con la domanda, normalmente scritta (cann.1502-1503), nella quale l’attore formula la sua richiesta, esponendo gli argomenti sui cui è fondata secondo diritto e attenendosi ai requisiti del can.1504. Una volta presentata, il giudice deve ammetterla con decreto (o, se ricorre uno dei motivi previsti nel can. 1505, respingerla). Dopo aver ammesso la domanda, il giudice deve citare in giudizio il convenuto, affinché risponda alla domanda per iscritto, o si presenti davanti a lui per la concordanza del dubbio (cann. 1507-1510).
Compiuta la contestazione della lite, il giudice deve prefiggere alle parti un congruo periodo di tempo per proporre ed espletare le prove. Tale fase del processo è chiamata anche di istruzione o istruttoria, è considerata come la regina del processo. Il can. 1526 § 1 contiene il principio classico attraverso cui si stabilisce a chi spetta l’onere di fornire prove, cioè, chi deve apportare gli elementi di giudizio necessari alla certezza di ciò che viene affermato nel processo e che deve essere provato: l’onere di fornire le prove spetta a chi agisce.
Note
[1] Cfr. A.M. Arena, Lezioni di diritto processuale comparato, PUL, 1975, 71 ; cfr. G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, 3ed., Napoli, 1923, 390.
[2] J.M.Pinto Gómez, La giurisdizione, in P.A. Bonnet – C. Gullo (curr.), Il processo matrimoniale canonico, 2ed., Coll. Studi giuridici, n. XXIX, Città del Vaticano,1994, 101-132, in part. 119.
[3] S. Carmignani Cardi, Principio inquisitorio e principio dispositivo, in C. Gullo – P.A. Bonnet(curr.), Il giudizio di nullità matrimoniale dopo l’istruzione “Dignitas Connubii”, LEV, Città del Vaticano, 2007,327-334.
[4] P. Ourliac, L’office du juge dans le droit canonique classique, in Mélanges offerts à Pierre Hébraud, Toulouse, 1981, 627-644.
[5] Cfr. F Dotti, Diritti della difesa e contraddittorio:garanzia di un giusto processo? Spunti per una riflessione comparata del processo canonico e statale, Coll. Tesi gregoriana serie diritto canonico, n. 69, PUG, Roma, 2005, 157-159.
[6] Sull’importanza da dare all’esame del fumus e i rischi di un’eccessiva estensione di questo compito si rimanda a : M.J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, 6éd., Ediurcla, Roma, 2012, 337-339.
[7] Cfr. P.V. Pinto, I processi nel codice di diritto canonico commento sistematico al lib.VII, LEV, Città del Vaticano, 1993, 231.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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