Il rapporto tra il principio di legalità e il can. 1399 CIC

Peter Paul Rubens, Madonna della Cesta, 1615 ca., Galleria Palatina (Firenze)

Il principio di legalità

Il cd. principio di legalità – sussumibile nel noto brocardo nullum crimen, nulla poena sine lege poenali praevia – senza dubbio rappresenta uno dei baluardi di ogni sistema penale. Esso prescrive il divieto generale di sanzionare penalmente un soggetto se non nel caso di riconducibilità della condotta perpetrata ad una fattispecie normativa prevista come reato al momento stesso della commissione del fatto contestato. 

Negli ordinamenti civili, il principio in commento ha prima di tutto un valore di tutela e di garanzia del soggetto sottoposto a procedimento penale, andando a circoscrivere il perimetro entro cui si inserisce la discrezionalità del giudice, il quale è chiamato a decidere sulla base del dettato normativo, scadendo egli in caso contrario nell’illegittimo arbitrio. Per altro verso, il principio di legalità assume anche una funzione di deterrenza e di prevenzione, in quanto si presume che il cittadino, conoscendo il contenuto della legge e della sanzione associata alla sua violazione, venga trattenuto dal commettere il reato, in quanto inibito dal timore della pena.

La declinazione del principio di legalità nell’ordinamento canonico

Nello specifico contesto dell’ordinamento canonico, il principio di legalità assume sfumature peculiari e connotati propri, riconducibili all’indole tipica della Chiesa e del suo apparato ordinamentale. Il can. 221 § 3 prescrivendo che: “I fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche, se non a norma di legge”, rimanda a un concetto di legalità che, quindi, richiede di essere analizzato avendo come riferimento il significato che lo stesso assume nell’ordinamento della Chiesa.

Se, nella sua essenza, la legalità è conformità della condotta a una regola preesistente, ossia a un criterio che precede la norma e la plasma, nella Chiesa il parametro rispetto al quale tale conformazione opera risiede nel fondamento divino della giustizia ecclesiale. In altri termini, nel diritto canonico viene a crearsi un rapporto di priorità della volontà divina su quella umana, ancorché giuridicamente declinata, con la conseguenza che è proprio tale volontà divina a realizzare pienamente il concetto di legalità [1]. La giuridicità ecclesiale, quindi, atteso il suo fondamento divino, non solo non può contrastare con l’ordine di giustizia che Cristo ha dato alla Chiesa, ma è chiamata a portarlo a compimento; si stabilisce in questo modo un rapporto di priorità della volontà divina sulle soluzioni umane che va a realizzare la struttura essenziale della legalità. Da ciò consegue che il dovere di osservanza delle norme positive che fa capo a ciascuno dei Christifideles esprime l’adeguamento a un ordine oggettivamente giusto, che i consociati dovrebbero essere in grado di percepire come tale, prescindendo quindi dal prescritto formale della legge, proprio in quanto fondato sulla lex divina [2]. 

Negli ordinamenti secolari vi è una evidente difficoltà nell’individuare valori stabili su cui fondare la razionalità della legge, e tanto spinge alla rigida applicazione delle procedure. Nell’ordinamento canonico, al contrario, vi è una Verità oggettiva che costituisce il nucleo contenutistico certo delle leggi e degli atti di governo, che trovano a loro volta concreta esplicitazione nei procedimenti. 

Alla luce di quanto esposto è possibile comprendere perché nel diritto della Chiesa si considerino compatibili con il principio di legalità istituti che negli ordinamenti secolari ne rappresenterebbero una violazione, tra cui le pene facoltative o quelle indeterminate o, ancora, il disposto del can. 1399 CIC, che si analizzerà a breve. Invero, un’applicazione rigorosa di esso principio – rectius una sua applicazione secondo modalità equivalenti a quelle proprie degli ordinamenti civili – si porrebbe in contrasto con i principi direttivi del sistema penale canonico, che è prima di tutto mosso dal fine religioso e pastorale; la Chiesa, infatti, deve sempre trovarsi nella condizione di intervenire in maniera efficace per ripristinare la comunione ecclesiastica ogni volta che la stessa sia messa in discussione, e ciò anche nei casi in cui manchi una esplicita legittimazione a livello normativo [3]. 

Il rapporto con il can. 1399

A questo punto, appare interessante approfondire proprio il rapporto tra il principio di legalità e il summenzionato can. 1399 CIC, norma, quest’ultima, posta a chiusura della parte speciale sui singoli delitti. Essa statuisce:

Oltre i casi stabiliti da questa od altre leggi, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con giusta pena, solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali”. 

In primo luogo, occorre precisare che la norma in commento non rappresenta una deroga al disposto del can. 1321, secondo cui, per aversi delitto, la violazione della legge o del precetto penale deve concretizzarsi in una condotta esterna e gravemente imputabile. Inoltre, il can. 1399 ha i caratteri della residualità ed eccezionalità: esso, in quanto norma residuale, opera soltanto nell’ipotesi in cui la condotta esterna contestata non sia sussumibile nell’alveo di una norma penale tipica; si tratta poi di disposizione eccezionale in quanto trova applicazione in ragione della particolare gravità dell’azione perpetrata, da cui l’esigenza di intervenire per riparare lo scandalo, per ripristinare la giustizia ecclesiastica e per emendare lo stesso reo [4].

Si tratta, in definitiva, di una disposizione che consente all’Autorità ecclesiastica di intervenire, ricorrendo i presupposti visti, anche in assenza di una specifica previsione normativa, e ciò al fine di ripristinare l’ordine morale violato all’interno della Chiesa che ben si ricollega all’accezione di legalità poc’anzi esposta.

È evidente che la norma in commento non consente di qualificare come penale qualsiasi legge sprovvista di sanzione; si richiama quindi alla prudenza nel suo utilizzo, al fine di evitare che si giunga a una indiscriminata proliferazione di fattispecie penali, specie se poi riconducibili nell’alveo di norme già tipizzate. In questa scia si pone una pronuncia rotale coram Huber del 9 luglio 2004 che ribadisce come il can. 1399 CIC senz’altro non si oppone al principio di legalità, dal momento che fa proprio quello del nulla poena sine culpa; esso postula inoltre la necessità dell’ordinamento canonico di intervenire a seguito della commissione di condotte particolarmente gravi e quindi lesive della comunione ecclesiale, anche in assenza di una specifica disciplina penale [5]. Ci troviamo, in definitiva, dinanzi a uno degli strumenti che rende effettivo quel moto di giustizia sostanziale che la Chiesa intende fermamente sempre promuovere e perseguire nell’obiettivo primario della salus animarum

Note

[1] Cfr. B. Serra, Osservazioni sul principio di legalità come idea e come metodo nell’esperienza giuridica della Chiesa, in Stato, Chiesa e pluralismo confessionale, 28 (2012), p. 8.

[2] Cfr.  G. Dalla Torre, Qualche considerazione sul principio di legalità nel Diritto Penale Canonico, in Angelicum, 85 (2008), n. 1, pp. 267-287.

[3] Cfr. V. De Paolis-D. Cito, Le sanzioni nella Chiesa. Commento al codice di diritto canonico libro VI, Città del Vaticano, 2000, p. 108.

[4] Cfr. B. F. Pighin, Il nuovo sistema penale della Chiesa, Venezia, 2021, pp. 522-524.

[5] Cfr. coram Huber, sent. diei 9 iulii 2004, in RRDec., vol. XCVI, pp. 482-483, cit. da P. Bianchi, Recenti sentenze rotali (anche coram Caberletti) in materia penale, in Iustitia et sapientia in Humiltate. Studi in onore di Mons. Giordano Caberletti, Av.Vv. (a cura di), Città del Vaticano, I (2023), pp. 452-453.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”

(San Giovanni Paolo II)

 

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Carlotta Marciano di Scala

Avvocato in Foro civile, dottoranda in Diritto Canonico.

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