Giusto processo e orientamento veritativo nel Diritto canonico, cenni comparatistici

Giorgio De Chirico, il Trovatore, seconda versione, litografia a 5 colori

Premesse

Una congrua riflessione su quello che in gergo tecnico chiamiamo giusto processo, nell’Ordinamento canonico, non può prescindere dal considerare taluni elementi propedeutici che si pongono come doverosa premessa ad un discorso organico e ben strutturato. In primo luogo uno sguardo all’orizzonte entro cui non solo questo, ma ogni discorso relativo al Diritto canonico deve radicarsi, ovvero il retroterra scritturistico da cui non si può prescindere. Inizieremmo, infatti col dire che l’esperienza giuridica dell’Ordinamento della Chiesa si muove tra due termini ben precisi: ἀγάπη e storia, ovvero in un altalenante contraddittorio tra storia della salvezza biblica e un potere che oscilla perennemente tra koinonìa eucaristica e legalistica fissazione delle condizioni – così potremmo dire – di appartenenza al Regno di Dio [1]. Proprio tale continuo contraddittorio indica come in un Ordinamento comunque considerato un “Ordinamento di grazia”, la componente umana non si dissolva, ma piuttosto si elevi qua talis ad una dimensione che introduce per fede la dimensione umana stessa nell’orizzonte salvifico dell’Alleanza.

In tale prospettiva ritorniamo a quell’iniziale ἀγάπη che incontra la storia: l’autoritarismo di una pretesa del rifiuto di mettersi in discussione che traspariva dalla rigida lettera della Pastor Aeternus, che – per l’interpretazione di alcuni – pareva quasi riduttiva dei doveri-diritti del fedele redento, che sfociava nella sacralità di un potere accentrato, è contrapposto all’amore incrollabile e fedele, ma spesso anche tradito, dell’Eterno: un ἀγάπη infinito che travolge l’umano nel patto di Alleanza. In questa prospettiva si inserisce il Diritto canonico: nella dialettica tra la potenza dell’ἀγαπάω del Signore Gesù e il più debole φιλέω di Pietro [2]. Questo fa comprendere come tutto l’Ordinamento canonico abbia una natura assolutamente di strumento a servizio della Verità, senza alcuna pretesa di assurgere ad una dignità noumenica intoccabile. In questa prospettiva si inserisce anche la nostra riflessione sul giusto processo, principio da intendersi come orientatore per un servizio che testimoni a pieno la verità per la salvezza delle anime a cui tutto l’Ordinamento è finalizzato.

Orientamento veritativo del Diritto canonico

La garanzia di giustizia del processo canonico è senza ombra di dubbio l’orientamento veritativo di tutto l’Ordinamento, per il quale non si può prescindere da una sottolineatura proprio su tale tematica che trova immediato riscontro nella moralis certitudo. Sembra opportuno sottolineare due fondamentali collegamenti: da un lato l’interazione tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo nella formazione e dall’altro la continuità tra quaestio facti e quaestio iuris nel contenuto del convincimento richiesto [3]. La soggettività della certezza, ovvero il libero convincimento del giudice, non è contraria alla dimostrazione e spiegazione dello stato mentale raggiunta. La motivazione è infatti la giustificazione di fronte alle parti, al tribunale d’appello e alla comunità ecclesiale della conclusione coscienziosamente raggiunta.

Il riferimento alla coscienza trova inoltre un inesorabile fondamento dimostrativo negli atti e nelle prove acquisite [4]. La sicurezza da acquisire, tuttavia, non riguarda solo lo svolgimento della vicenda in se ipsa, ma anche i presupposti giuridici della pronuncia; quella che nella pratica è la pars in iure della sentenza. Il sillogismo giudiziario non può tradursi, infatti, nello stravolgimento o nell’accomodamento surrettizio della premessa. I dubbi o le riserve che inficiano l’acquisizione della convinzione si estendono anche all’interpretazione – mai positivisticamente intesa – degli elementi legali. Il giusto rigore ermeneutico trova un riscontro nei criteri di valutazione delle prove. In definitiva, il realismo veritativo supporta una visione organica e unitaria del processo, dalla quale deriva l’interesse nel notare che un’impostazione antropologicamente corretta, pur senza sprovvedutezze o rilassamenti, non si traduce nello sfavore o sfiducia nei confronti della credibilità delle parti.

Alcuni profili comparatistici

Anzitutto, avendo associato inscindibilmente il concetto di giusto processo a quello di verità, è utile comprendere cosa quest’ultima significhi per gli ordinamenti civili, successivamente sarà utile anche scorrere brevemente le differenze quanto all’aspetto probatorio e decisionale. Tali considerazioni saranno ovviamente fatte dando per assodata la conoscenza delle due famiglie di Common law e di Civil law, i cui profili caratteristici non tratteremo in questa sede.

Per il nostro discorso risulta particolarmente utile l’interpretazione sistematica delle norme costituzionali in tema di giurisdizione penale, da cui emerge un modello sostanzialmente garantista, in cui i suoi quattro assiomi di riferimento, così enunciabili: «Nulla poena, nulla culpa sine iudicio; nullum iudicium sine accusatione; nulla accusatio sine probatione; nulla probatio sine defensione» [5]. Si ricavano facilmente dalla lettura combinata di alcuni articoli della Carta Costituzionale. In un’ottica costituzionale, quindi, alla verità si giunge tramite il processo penale, vale a dire quella serie di attività compiute da giudici indipendenti nelle forme previste dalla legge e dirette alla formulazione, in pubblico contraddittorio tra accusa e difesa, di un giudizio consistente nella verificazione o falsificazione empirica di un’ipotesi accusatoria e nella conseguente condanna o assoluzione di un imputato. È la esemplificazione del modello garantista, il quale respinge dunque l’ideale della verità come corrispondenza, riconoscendogli al massimo la natura di principio limite, mai compiutamente raggiungibile.

In aderenza alle più accreditate risultanze epistemologiche, anch’esso sposta l’accento dalla verità al rigore; ed eleva le regole procedurali da mere condizioni di validità delle decisioni giudiziarie, a vere e proprie condizioni di verità delle stesse. È inevitabile, a questo punto, chiedersi se il sistema penale deve far emergere una verità processuale o una verità storica, dove per verità processuale si intende quella che si manifesta nel confronto fra le due opposte versioni dei fatti che vengono presentate al giudice. Questa non sempre è uguale a quella sostanziale, anzi, per varie ragioni è spesso impossibile ricostruire in un’aula di Tribunale, o comunque a posteriori, la realtà sull’accaduto. Il processo penale, dunque, non può che accertare – e tendere a – una verità processuale, lo afferma la Suprema Corte di Cassazione: «Verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto» [6]. La verità di cui parliamo, dunque, concettualmente nel sistema di Civil law, deve essere per forza approssimativa; l’idea contraria, secondo la quale si possa giungere in ambito processuale ad una realtà assoluta e certa, viene definita come un’ingenuità epistemologica, che le dottrine giuridiche illuministiche del giudizio come applicazione meccanica della legge condividono con il realismo gnoseologico volgare.

Dalla trasformazione in processo di parti deriva che anche il processo penale tende a risolvere i conflitti con una decisione giurisdizionale, pur rimanendo sempre l’accertamento della verità materiale la base sulla quale può fondarsi un «giusto processo». Infatti una decisione fondata sulla menzogna non può certamente definirsi giusta, tanto che è prevista, in determinati casi, in materia penale la revisione della sentenza irrevocabile di condanna (artt. 629 e s. c.p.p.), come in materia civile è prevista la revocazione (artt. 391bis e 395 c.p.c.) [7]. Evidentemente se tali disquisizioni sorgono da una malintesa concezione di verità processuale diversa e disgiunta dalla verità materiale occorre fare una ulteriore riflessione per chiedersi se sia ancora il caso di proporre la dicotomia tra verità processuale e verità storica.

A proposito della decisione, di cui prima accennavamo, è utile – in questa sede – ricordare che, come il giudice canonico decide per la raggiunta moralis certitudo, il giudice secolare decide avendo fugato ogni ragionevole dubbio. Il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, rappresenta il limite alla libertà di convincimento del giudice, apprestato dall’ordinamento per evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti discrezionali, soggettivi e confinanti con l’arbitrio: si tratta di un principio che permea l’intero ordinamento processuale e che trova saliente espressione nelle garanzie fondamentali inerenti al processo penale quali la presunzione di innocenza dell’imputato, l’onere della prova a carico dell’accusa, l’enunciazione del principio in dubio pro reo e l’obbligo di motivazione e giustificazione razionale della decisione a norma degli artt. 111 c.6 Cost. e 192 c.1 c.p.p. [8].

Circa l’espressione “ragionevole dubbio” né il legislatore né la giurisprudenza si sono preoccupati di fornirne una compiuta definizione: possiamo quindi affidarci alla dottrina che riprende – a sua volta – le elaborazioni dottrinali dei Paesi di Common law, recependo la relativa nozione contenuta nel § 1096 del codice penale californiano laddove si afferma che il ragionevole dubbio non è un mero dubbio possibile, perché qualsiasi cosa si riferisca agli affari umani e collegata a giudizi morali è aperta a qualche dubbio possibile o immaginario. Già da questi brevi cenni in merito al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, si deduce facilmente come, in qualche modo, pur affermandosi da un lato che nel processo – e in specie nel processo penale, come già detto – d’altro canto il legislatore stesso cerca di riportare al centro l’imprescindibile principio della verità, a ragion veduta, cercando di fugare qualsiasi infiltrazione di libera arbitrarietà personale.

Più particolareggiata la concezione di verità e garanzia di giustizia nel Common law dato l’essere basato del processo sul contraddittorio risulta importante avere chiaro il principio di imprescindibilità della verità. Bisogna preservare tale principio avendo innanzi la consapevolezza che quanto emerge dal contraddittorio sarà non solo vincolante per le parti, ma – tramite lo stare decisis – sarà giurisprudenza per il futuro.

Conclusioni

Dai brevissimi cenni comparatistici comprendiamo che il fulcro pare essere il ruolo che il principio del giusto processo gioca nella fase decisoria dei processi secolari e dunque, quale sia l’approccio alla tensione veritativa del processo secolare nella fase decisoria. Ovviamente, non possiamo non fare riferimento ad un già accennato principio degli ordinamenti secolari che si accosta non poco, seppur con differenze, ad un principio fondamentale ed imprescindibile del Diritto canonico, quello della moralis certitudo. Nei sistemi secolari non è così fortemente sentito, come nel nostro Ordinamento, ma c’è una tensione veritativa che ruota attorno al principio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”: si tratta di un principio che permea l’intero ordinamento processuale e che trova saliente espressione nelle garanzie fondamentali inerenti al processo penale quali la presunzione di innocenza dell’imputato, l’onere della prova a carico dell’accusa, l’enunciazione del principio in dubio pro reo e l’obbligo di motivazione e giustificazione razionale della decisione a norma degli artt. 111 comma 6 Cost.

Fatta tale doverosa premessa, certamente si può affermare che il tessuto connettivo di ogni valutazione decisoria consiste in un giudizio probabilistico, scandito per peso e qualità secondo le diverse fasi e le diverse funzioni proprie di ciascuna fase del processo, essendo la valutazione probabilistica conclusiva circa l’attendibilità e la credibilità dell’ipotesi di accusa sicuramente più pregnante e diversa di quella a fondamento di una misura cautelare, personale o reale, o di quella giustificativa del rinvio a giudizio dell’imputato. Tutto ciò, infine, all’interno di una diffusa rete di regole epistemologiche che disegnano il ragionamento probatorio del giudice alla base dei distinti giudizi probabilistici [9]. Il discrimine è nella concezione di verità. Seppur apparentemente, forse ad una lettura molto poco attenta, può sembrare che gli intendimenti coincidano, in realtà così non è affatto.

Nel nostro Ordinamento è fondamentale l’intendere la verità come fine primario da perseguire e d’altronde – lo abbiamo visto – attorno vi ruotano molti altri principi e di esso si impregnano la stragrande maggioranza degli istituti. Nell’ordinamento italiano, emblematico nella nostra trattazione della famiglia romanistica, già questa importanza scema e seppur sussista un principio sancito dalla Corte di Cassazione, in realtà nel tempo è stato sempre male interpretato, al punto, talvolta, da essere ignorato. Ancor meno nell’ordinamento angloamericano, quando ad essere fondamentale è l’attacco alla controparte con il fine di “distruggere” e non di incontrarsi per costruire la verità. Seconda nota meritevole è quello che abbiamo definito l’insieme delle garanzie della verità.

In generale, invece, possiamo affermare che in ogni società che si dica giusta, bisogna avvertire forte l’esigenza di assicurare con idonee norme la funzione veritativa dell’attività processuale, in particolare tramite l’acquisizione e la valutazione delle prove, che conducono il processo stesso alla giustizia. Questo è particolarmente rilevante nella societas ecclesiastica, ove il compito di giudicare secondo verità è parte integrante della missione essenziale della Chiesa: essere testimoni della Verità, dunque anche un processo che possa dirsi giusto, ad Essa rende testimonianza, inserendosi a pieno tutolo nella missio Ecclesiae.

Note

[1]cfr. F. Zanchini di Castiglioncino, Reflections on due process in canon law, against the background of the ongoing rebalancing of rights and powers in the Catholic Church, in Stato Chiese e pluralismo confessionale, 20 (2022).

[2] Cfr. Gv 21, 1-19.

[3] Cfr. J. Llobell, La certezza morale nel processo canonico, in Il Diritto Ecclesiastico, 109/1 (1998), 771-778.

[4] Cfr. can. 1608 § 2 C.J.C.; H. A. von Ustinov, “Ex actis et probatis”: dictar sentencia, una tarea comprometidain Anuario Argentino de Derecho Canónico, 23 (2017), 169-196.

[5] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Editori Laterza, 2018, 69.

[6] Corte di Cassazione, sentenza n. 6361, 25 giugno 1996.

[7] Cfr. R.E. Kostoris, Giudizio, in Enciclopedia giuridica, XV, Roma, 1997,1-16.

[8] Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 22791, 14 maggio 2004.

[9] Cfr. F. M. Pagano, Logica de’ probabili, Napoli 1819, in Unione delle Camere penali, 1977, 26-27.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Cristian Lanni

Nato nel 1994 a Cassino, Terra S. Benedicti, consegue, nel 2013 la maturità classica. Iscrittosi nello stesso anno alla Pontificia Università Lateranense consegue la Licenza in Utroque Iure nel 2018 sostenendo gli esami De Universo Iure Romano e De Universo Iure Canonico. Nel 2020 presso la medesima università pontificia consegue il Dottorato in Utroque Iure (summa cum laude) con tesi dal titolo "Procedimenti amministrativi disciplinari e ius defensionis", con diritto di pubblicazione. Nel maggio 2021 ha conseguito il Diploma sui "Delicta reservata" presso la Pontificia Università urbaniana, con il Patrocinio della Congregazione per la Dottrina della Fede e nel novembre 2022 il Baccellierato in Scienze Religiose presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, presso cui è iscritto ai corsi per la Licenza. Dal luglio 2019 è iscritto con nomina arcivescovile all'Albo dei Difensori del Vincolo presso la Regione Ecclesiastica Abruzzese e Molisana, operante nel Tribunale dell'Arcidiocesi di Chieti, dal settembre dello stesso anno è docente presso l'Arcidiocesi di Milano. Nello stesso anno diviene Consulente giuridico presso Religiosi dell'Arcidiocesi di Milano. Dal giugno 2020 è iscritto con nomina arcivescovile all'Albo degli Avvocati canonisti della Regione Ecclesiastica Lombarda. Dal 2021 collabora con il Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano Sardo e come Consulente presso vari Monasteri dell'Ordine Benedettino. Dal 13 novembre 2022 è Oblato Benedettino Secolare del Monastero di San Benedetto in Milano. Dal 4 luglio 2024 è membro dell'Arcisodalizio della Curia Romana.

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