L’impedimento di pubblica onestà can. 1093

onestà

Continuando con gli impedimenti matrimoniali che abbiamo già trattato QUI, approfondiamo oggi quello di pubblica onestà. Per pubblica onestà si intende l’inabilità che sorge da un matrimonio invalido, dopo aver instaurato la vita in comune, o da un concubinato pubblico e notorio. In presenza di tale circostanza l’uomo non può sposarsi validamente con i consanguinei di primo grado nella linea retta della donna con cui ha vissuto in quel matrimonio invalido o in quel concubinato e la donna con i consanguinei del marito nello stesso grado e nella stessa linea [1].

Alle origini dell’impedimento

L’impedimento di pubblica onestà non trova radici nelle culture più antiche. Esso sorge a seguito della definizione di un senso del pudore che nel tempo si è delineato. Infatti, nel diritto romano antico l’impedimento non esiste, fatta eccezione per la proibizione di alcune unioni considerate illecite dalla pubblica moralità: è il caso di un figlio che non poteva contrarre nozze con la donna che era stata concubina del padre o con la donna che era promessa sposa dello stesso; allo stesso modo si proibiva il matrimonio tra un uomo e la figlia dell’ex moglie [2]. Pertanto, secondo il diritto romano l’impedimento veniva classificato come quasi affinitas e consisteva nel divieto di sposare la moglie del padre o del figlio oppure la madre della sposa o il padre della sposa. Un primo chiaro riferimento all’impedimento in esame è tuttavia offerto da Graziano e dai suoi commentatori, i quali facevano derivare la nascita della pubblica onestà dagli sponsali o dal matrimonio solo rato nei confronti dei consanguinei del coniuge [3].

Le novità del Concilio di Trento

Il Concilio di Trento intervenne sul diritto antico, limitando l’impedimento ai soli sponsali validi ed al primo grado. La fattispecie che si andava configurando aveva ad oggetto contraenti che avevano già espresso la loro volontà nel contratto di fidanzamento o avevano prestato il loro consenso alla cerimonia di nozze (consensus de praesenti). L’impedimento sorgeva dunque dalla pubblica manifestazione della volontà di diventare marito e moglie, pur senza la realizzazione della copula che, se esistente, avrebbe dato vita all’impedimento di affinità.

La ratio sottesa alla disciplina consisteva nel ritenere contrario alla naturale decenza che un uomo, già impegnatosi con un contratto a sposare una donna, potesse sciogliere quel contratto per sposare la madre della fidanzata, della figlia o della sorella. A riguardo la dottrina affermava che: «A causa della similitudine e visto il parallelismo con l’impedimento di affinità, il concedere a qualcuno che era pubblicamente un quasi-parente la facoltà di sposare un’altra con cui gli sarebbe stato impedito celebrare il matrimonio a causa dell’affinità, sembrava contrario alla naturale decenza» [4].

La prima legislazione ecclesiastica

I limiti introdotti dal Concilio di Trento furono recepiti anche dai primi interventi legislativi in materia. Con la Costituzione Ad Romanum del 1 luglio 1568 Pio V dichiarò che la correzione del diritto antico apportata dai Padri Tridentini riguardava solo gli sponsali ed escludeva il matrimonio rato. Inoltre, la Sacra Congregazione del Concilio, con un decreto del 13 marzo 1879, stabilì che il matrimonio civile non aveva alcuna efficacia nella configurazione dell’impedimento in esame. Con il Decreto Ne Temere del 2 agosto 1907 la stessa Congregazione restrinse l’ambito di applicazione della pubblica onestà, affermando che gli unici sponsali idonei a produrre effetti canonici dovevano risultare da un atto scritto.

Il Codice del 1917

Il Codice del 1917 disciplinava l’impedimento di pubblica onestà al can. 1078, secondo cui esso sorgeva da un matrimonio invalido, sia consumato che non consumato, e da un concubinato pubblico o notorio e dirimeva le nozze in primo e in secondo grado della linea retta tra l’uomo e i consanguinei della donna e viceversa [5]. Il Legislatore pio-benedettino eliminò dunque ogni riferimento agli sponsalia, chiarendo la differenza tra impedimento di affinità, che si fondava su un matrimonio valido, e l’impedimento di pubblica onestà, radicatosi su una unione imperfetta o illegittima [5].

Pertanto, alla luce della normativa abrogata, l’impedimento poteva sorgere dall’unione tra un uomo e una donna con l’apparenza di un vero matrimonio; da un matrimonio nullo per vizio di forma o per la presenza di altri impedimenti; da un concubinato, che si configurava secondo il diritto canonico in presenza di una frequentazione stabile della stessa persona e purché fosse pubblico e notorio. In ogni caso non rilevava la consumazione o meno del matrimonio ai fini della sussistenza dell’impedimento.

Il can. 1093 CIC 1983

Il vigente Codice di Diritto Canonico disciplina l’impedimento in esame al can. 1093: “L’impedimento di pubblica onestà sorge dal matrimonio invalido in cui vi sia stata vita comune o da concubinato pubblico e notorio; e rende nulle le nozze nel primo grado della linea retta tra l’uomo e le consanguinee della donna, e viceversa”. In continuità con la legislazione precedente, l’impedimento può sorgere in due casi: matrimonio invalido, se si instaura una vita in comune tra gli sposi apparenti, oppure un concubinato pubblico e notorio.

In entrambe le ipotesi si configura una inabilità giuridica, il cui fondamento è dato un matrimonio apparente determinato dalla convivenza realizzata [6]. Il matrimonio è invalido, poiché l’unione tra uomo e donna è nata da una viziata manifestazione del consenso, da un impedimento o da un difetto di forma. È tuttavia necessario che le parti abbiano instaurato una coabitazione: per il diritto della Chiesa è quella convivenza more uxorio a turbare l’ordine pubblico. Il matrimonio civile non rileva ai fini della presenza dell’impedimento: quel tipo di unione non ha alcun valore, in quanto i battezzati cattolici sono obbligati alla forma canonica.

L’ipotesi del concubinato si verifica invece in presenza di una relazione carnale tra uomo e donna e che si fonda su una convivenza tra i due, i quali non sono uniti da alcun vincolo, neanche apparente. Tale unione deve tuttavia essere stabile ed imitare la vita matrimoniale, tanto da poter ritenere le due parti una vera e propria coppia [7]. Il concubinato deve inoltre essere pubblico, nel senso di già divulgato o che facilmente si divulgherà, o notorio, nel senso che esso è conosciuto da tutti. Se il concubinato è occulto, non sorge alcun impedimento. A differenza della legislazione precedente, il can. 1093 limita l’applicazione dell’impedimento al solo primo grado della linea retta.

Cessazione dell’impedimento

L’impedimento di pubblica onestà è di diritto ecclesiastico. Esso cessa pertanto con la concessione di una dispensa da parte dell’autorità ecclesiastica competente: l’Ordinario del luogo. La dispensa può intervenire solo in presenza di una giusta causa, tenendo conto del bene pubblico e sempre se non esiste alcun dubbio sulla possibile relazione di consanguineità tra l’uomo che intende contrarre matrimonio e la pseudo coniuge. Se poi il matrimonio invalido si trasforma in matrimonio valido, l’impedimento cessa ugualmente.

Note

[1] J. MANZANARES, A. MOSTAZA, J. SANTOS, Nuevo derecho parroquial, BAC, Madrid, 1994, p. 394 ss.

[2] F.X. WERNZ, P. VIDAL, Ius canonicum, Tom. V, Ius matrimoniale, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1925, p. 450 ss.

[3] A. BOGGIANO PICO, Il matrimonio nel diritto canonico, Utet, Torino,1936, p. 268 ss.

[4] K.E. BOCCAFOLA, Gli impedimenti relativi ai vincoli etico-giuridici tra le persone: affinitas, consanguineitas, publica honestas, cognatio legalis, in Gli impedimenti al matrimonio canonico, LEV, Città del Vaticano, 1989, p. 211 ss.

[5] F. CAPPELLO, Tractatus canonico moralis de sacramentis. De matrimonio, vol. V, Sumptibus et Typis Petri Marietti Editoris, Torino-Roma, 1950, p. 517 ss.

[6] A. D’AURIA, Gli impedimenti matrimoniali, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2007, p. 201 ss.

[7] A.M. ABATE, Gli impedimenti matrimoniali nel nuovo codice di diritto canonico, in Apollinaris, 2, 1987, p. 498 ss.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)

 

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