La forma nel matrimonio canonico dalle origini al CIC ‘17

forma del matrimonio
Sposalizio della Vergine, affresco di Bernardino Luini, 1525

La forma canonica della celebrazione costituisce uno dei requisiti essenziali per la valida costituzione del matrimonio, insieme al consenso delle parti e alla capacità giuridica.

L’iter che ha consentito l’approdo all’istituto della forma, così come disciplinata dalla legislazione canonica vigente, non è stato privo di discussioni e opinioni divergenti in merito agli elementi ritenuti necessari per la configurazione dell’istituto giuridico in esame.

L’introduzione della forma nei primi secoli della Chiesa

Nei primi secoli di vita della Chiesa non è attestato un modo specifico di celebrazione del matrimonio da parte dei cristiani, i quali piuttosto si conformavano agli ordinamenti sociali vigenti [1].

L’avvento di Cristo fa prendere coscienza che l’unione matrimoniale dei fedeli, trasfigurata dal loro battesimo, è segno dell’unione di Cristo con la Chiesa, cui essi sono chiamati a conformarsi: ciò spinge i Vescovi ad introdurre una presenza della Chiesa nella celebrazione tradizionale del matrimonio [2].

A partire dal IV secolo il matrimonio dei cristiani acquista nella celebrazione uno specifico momento liturgico, pur costituendo soltanto un elemento esterno alla costituzione del matrimonio che, in quanto tale, trovava ancora la sua compiuta disciplina nelle leggi civili [3].

Ciononostante, cominciano a diffondersi le prime testimonianze di messe nuziali, tanto che Papa Sisto III (432-440) riconosce ai laici più degni la possibilità di inserire il tradizionale rito liturgico-cristiano del matrimonio nella celebrazione della messa [4].

Ciò costituisce l’antecedente che legittimerà l’imperatore Carlo Magno nell’802 a rendere obbligatoria per tutto l’Impero la celebrazione pubblica del matrimonio davanti al sacerdote.

Il contrasto alla pratica dei matrimoni clandestini

Questa non fu la sola forma riconosciuta per la celebrazione del matrimonio.

Ben presto si diffuse la pratica dei matrimoni clandestini, proibiti dalla Chiesa fin da subito [5]. Essi sono stati un serio problema a partire dall’epoca medievale, al punto da spingere la Chiesa a rinvenire possibili soluzioni per arginare il fenomeno.

Al tempo della Riforma, infatti, divenendo una vera e propria piaga sociale, i Principi secolari sollecitavano dalla Chiesa l’adozione di nuovi e più efficaci rimedi [6].

In particolare Alessandro III (1159-1181) vieta la celebrazione dei matrimoni clandestini con la sanzione della scomunica, stabilendo che si celebrassero pubblicamente davanti ai testimoni: qualora fossero stati comunque celebrati, era imposta una penitenza ai contraenti e la pena di sospensione ad triennium al sacerdote che li benedicesse.

Papa Innocenzo III (1198-1216) promulga una legge generale, nell’ambito del Concilio Ecumenico Lateranense IV, per reprimere gli abusi derivanti dai matrimoni clandestini.

Il Concilio di Trento

Sulla scia di tali interventi pontifici, i Concili particolari cominciano a chiedere alla Santa Sede una riforma radicale nella legislazione matrimoniale e i prelati spagnoli e francesi scrivevano al Concilio di Trento per ottenere una forma pubblica per la celebrazione del matrimonio [7].

La questione fu affrontata dai Padri Tridentini [8], i quali erano ben consapevoli dell’urgenza di stabilire una norma teologicamente fondata e giuridicamente efficace per impedire la celebrazione dei matrimoni clandestini [9].

Già la Congregazione generale del 29 agosto 1547 decise di confermare il divieto di contrarre tali matrimoni, ma la disputa fu particolarmente accesa, tant’è che nel febbraio 1563 si continuava a discutere dell’argomento.

Da una parte, si sosteneva che nessun matrimonio doveva essere contratto clandestinamente e che l’ammissione della validità dei matrimoni clandestini era stata una tolleranza; dall’altra, si asseriva che il diritto umano non poteva aggiungere un nuovo elemento essenziale al vincolo per il principio dell’autonomia sacramentale, anche se si obiettava che il sacramento non si formava senza l’intervento del sacerdote [10].

Il Decreto Tametsi

Una risposta risolutoria si ha l’11 novembre 1563 con l’approvazione dei Canones super reformatione circa matrimonium, meglio noto come Decreto Tametsi, con cui si stabilisce che la forma essenziale della celebrazione del matrimonio è la dichiarazione del consenso dinanzi al parroco e due o tre testimoni, ritenendo clandestina ogni altra unione non celebrata in questa forma e dichiarandola nulla e invalida.

Inoltre, venivano riconosciuti validi i matrimoni clandestini anteriori al Decreto e si rigettava la dottrina che attribuiva ai genitori il potere di annullare o confermare, per i propri figli minori, simili matrimoni.

I Padri Tridentini non solo ritenevano ancora obbligatorie le pubblicazioni introdotte dal Concilio Ecumenico Lateranense IV, da adempiersi per tre giorni festivi consecutivi (in genere, le domeniche) ma, perché il matrimonio fosse valido, occorreva la presenza del parroco o dell’Ordinario del luogo o di un sacerdote da questi autorizzato, o di due o tre testimoni e il parroco, o il sacerdote autorizzato, doveva dal canto suo accertare il mutuo consenso e redigere il verbale della celebrazione da annotare su un apposito registro.

Dalla pubblicazione del Decreto sarebbe stato valido soltanto il matrimonio celebrato in forma pubblica e solenne, riconosciuta, questa, come unica forma ordinariamente valida per la costituzione del matrimonio.

La prassi, tuttavia, si mostrava alquanto diversa: le coppie continuavano a sposarsi come se il Tametsi non fosse mai entrato in vigore, ritenendo che il fondamento del matrimonio fosse soltanto la promessa [11].

Tuttavia, nessun documento ufficiale della Chiesa riconosceva valore di matrimonio ad unioni del genere. La stessa giurisprudenza rotale applicava a pieno titolo il Decreto, dichiarando nulli tutti quei matrimoni che avessero difettato del requisito di forma, secondo le indicazioni conciliari.

Tra i vantaggi dell’introduzione della formula tridentina vi è certamente il raggiungimento di una certezza giuridica, la cui assenza aveva causato non pochi abusi. Essa ha consentito una piena difesa dell’istituto matrimoniale, fornendo un mezzo di prova precostituito sulla valida costituzione dei matrimoni [12].

Il Decreto Ne Temere

A sostegno di questa tesi, lo stesso Decreto Ne temere, del 02 agosto 1907, imponeva la presenza attiva del parroco-sacerdote per la validità del matrimonio al quale assisteva, dichiarando così nulli i cd. matrimoni a sorpresa. Tuttavia, la formula usata nella legislazione di inizio ‘900 non era identica a quella impiegata nel Decreto Tametsi.

In questo caso, infatti, l’attenzione era posta principalmente sui soggetti contraenti, resi inabili al matrimonio qualora non avessero adempiuto le formalità stabilite per tale istituto.

Nel Ne Temere, invece non si menzionavano i contraenti ma l’attenzione era rivolta al matrimonio in sé.

L’originalità del Decreto sta nell’ambito di efficacia soggettiva dello stesso: il testo legislativo trovava applicazione per tutti i cattolici, sia nel caso in cui avessero contratto matrimonio tra di loro, sia se avessero sposato soggetti acattolici o non credenti.

Il can. 1094 CIC 1917

Ciò ha permesso che la formula in questione fosse pienamente recepita all’interno della codificazione pio-benedettina del 1917: il can. 1094 stabiliva che “sono validi soltanto i matrimoni contratti dinanzi al parroco o all’Ordinario del luogo o ad un sacerdote delegato da uno dei due e davanti ad almeno due testimoni, secondo tuttavia le regole espresse nei canoni che seguono, e salve le eccezioni di cui ai cann. 1098 e 1099”.

Il Legislatore prevedeva dunque ad substantiam soltanto questa formalità di espressione del consenso nuziale.

Parte della dottrina ha, in realtà, contestato gli effetti positivi apportati dall’introduzione della formula tridentina, asserendo che occorre evitare che essa, data l’attuale realtà sociale, piuttosto che essere una garanzia della verità del matrimonio sia, invece, uno strumento al servizio delle apparenze [13].

La normativa del 1917 costituisce l’antecedente importante per la vigente disciplina in materia di forma canonica del matrimonio.

L’eredità del Concilio tridentino, tuttavia, deve essere letta con gli stessi obiettivi che i Padri conciliari si erano prefissati mediante l’introduzione della forma ad validitatem, ossia la difesa della verità del matrimonio e la necessaria certezza giuridica.

Note bibliografiche

[1] A. Nocent, «Il matrimonio cristiano dal I al IV secolo», in Pontificio Istituto Liturgico S. Anselmo (a cura di), I sacramenti. Teologia e storia della celebrazione, Marietti, Genova, 2002, pp. 305-313.

[2] G. Bosio, Iniziazione ai Padri, Vol. I, La Chiesa primitiva negli scritti dei Padri anteniceni, Società Editrice Internazionale, Torino, 1963, p. 76.

[3] L. Sabbarese, Il matrimonio canonico nell’ordine della natura e della grazia. Commento al Codice di Diritto Canonico, Libro IV, Parte I, Titolo VII, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2019, p. 298.

[4] A. Fabbri, «Note sul consenso dei nubenti e sulla forma canonica del matrimonio in alcuni significativi scritti patristici», in Studi urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche, 3, 2007, p. 346.

[5] F. López Illana, «La forma sostanziale del matrimonio canonico dal concilio di Trento fino al Codice di diritto canonico Pio-Benedettino: speciali riferimenti ai decreti “Tametsi” e “Ne temere” nelle decisioni o sentenze del tribunale della Rota Romana», in J.I. Arrieta, G.P. Milano (a cura di), Metodo, fonti e soggetti nel diritto canonico. Atti del Convegno Internazionale di Studi “La Scienza Canonistica nella seconda metà del 900. Fondamenti, metodi e prospettive in D’Avack, Lombardìa, Gismondi e Corecco”, LEV, Città del Vaticano, 1999, p. 1037.

[6] P. Adnès, Il matrimonio, Desclée, Roma, 1966, pp. 101-102.

[7] R. Navarro Valls, Matrimonio y Derecho, Técnos, Madrid, 1995, pp. 31-32.

[8] H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, Morcelliana, Brescia, 19814, pp. 201-234.

[9] A.C. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico, dal concilio di Trento al Codice del 1917, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 54.

[10] G. Zarri, «Il matrimonio tridentino», in P. Prodi – W. Reinhard (a cura di), Il concilio di Trento e il moderno, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 442.

[11] D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 290-291.

[12] M.Á. Ortiz, «La forma del matrimonio nella giurisprudenza della Rota Romana», in Aa.Vv., La giurisprudenza della Rota sul matrimonio (1908-2008), LEV, Città del Vaticano, 2010, p. 234.

[13] J. Carreras, «Forma canonica e “favor matrimonii” in una recente sentenza rotale», in Ius Ecclesiae, 1, 1994, p. 183.

 

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”

(San Giovanni Paolo II)

 

 

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Federico Gravino

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