Dalla lex orandi, lex credendi alla lex credendi, lex orandi.

 


Questa rubrica, intitolata “Ius et oratio”, si propone di ripercorrere, in maniera quanto più chiara e semplice possibile, il legame che da sempre lega il Diritto Canonico e la Liturgia. 

Durante il XX Convegno di studi della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università della Santa Croce, dedicata a Diritto e norma liturgica, si è partiti dal concetto che la liturgia in se stessa sia un bene giuridico e un diritto della comunità dei fedeli[1].

Attraverso lo studio e l’analisi delle “fons iuris”, partiremo dai primi documenti della traditio apostolica per veder crescere davanti ai nostri occhi il rapporto tra la vita della comunità e la norma liturgica (lex orandi).

Questo nostro studio ci porterà certamente ad esaminare il fondamento della norma giuridica del culto divino, ma soprattutto ci potrà aiutare a dare una giusta interpretazione dei libri liturgici – e delle sue relative norme – frutto anche del lavoro del Concilio Ecumenico Vaticano II.

Si svelerà progressivamente l’importanza del concetto contenuto nel motto latino “Lex orandi, lex credendi” che non solamente intende la legge della preghiera come la legge del credente, ma in maniera più elitistica ed esclusiva ci propone come l’assimilazione della norma liturgica e della norma morale, spesso legate e unite l’una a l’altra, fosse – ed è tutt’ora – la strada per il credente. 

La formulazione di questo motto appartiene a Prospero di Aquitania (Limoĝes, 390 circa  – Roma 430 circa) monaco che, nella sua vita, si è dedicato allo studio e alla divulgazione del pensiero di sant’Agostino, sui temi della grazia e della predestinazione. 

Su questo adagio di san Prospero troviamo differenti interpretazioni che andremo ad esaminare in questa nostra prima riflessione.

  • Quello che si prega è l’oggetto della nostra fede.

Notiamo subito come questa interpretazione sia lontana dal pensiero cristiano e stoni con le parole di Gesù che l’evangelista Matteo riporta alla fine del “discorso della montagna” al capitolo 7: «Non chiunque mi dice, Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Noi indirizziamo la nostra preghiera a Dio e non a qualcosa, e se preghiamo Dio lo facciamo perché già abbiamo fede in Lui.

  • Dal giusto modo in cui preghiamo otteniamo un giusto modo di credere.

È fuori da ogni ragionevole dubbio che la preghiera è il sostentamento alla fede. Dio non guarda al modo esteriore in cui noi preghiamo, ma alla sincerità e alla genuinità della nostra preghiera. «Il Signore rispose a Samuele: Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. io, l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16, 6-7).

  • La legge del pregare coincide alla legge del credere.

Pregare e credere sono due esperienze che hanno moltissime cose in comune ma non per questo hanno lo stesso valore. La preghiera è un invito del Signore «Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Lc21,36), mentre la fede è una virtù teologale e di conseguenza è un dono di Dio. Noi possiamo apprendere a pregare ma non possiamo apprendere ad avere fede; possiamo apprendere i contenuti della nostra fede, ma la fede rimane, sempre e comunque, un dono di Dio. 

  • Il modo in cui celebriamo la liturgia è l’immagine di ciò che crediamo.

Questa interpretazione apre la strada ad una riflessione importante sulla questione liturgica odierna. Vediamo come spesso ci si imbatte in liturgie che si allontanano dalle norme e dalle rubriche liturgiche. Purtroppo ci sono sacerdoti che vogliono diventare “protagonisti” della liturgia o, peggio ancora, trovandola “noiosa” o datata scelgono di introdurre gesti e parole estranei alla vera liturgia. È bene ricordare – visto che l’argomento si presta – che la bellezza, la solennità e la freschezza liturgica risiedono solamente nei cuori che si accostano con sincerità all’incontro con il Signore e che comprendono, fino in fondo, l’importanza dei frutti dello spezzare la Parola e il Pane. La liturgia riflette la nostra fede. 

  • La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega.

Entriamo adesso nel nucleo della questione. In questa interpretazione è palesata la precisazione sul soggetto di chi crede (la Chiesa). Il modo di credere e di pregare del popolo di Dio radunato nel nome della Santissima Trinità è identico: la Chiesa crede come prega. Questo ovviamente non significa che esistano singoli cristiani in comunione con la Chiesa che non vivano e credano in maniera autentica a come pregano. Il papa Pio XII nella sua Enciclica Mediator Dei (1947), nel capitolo “liturgia e dogma” riprende l’adagio di San Prospero Lex orandi, lex credendi sostenendo che, se non inteso correttamente, questo principio non è insegnato e tanto meno comandato da Santa Madre Chiesa.

«Questo inconcusso diritto della Gerarchia Ecclesiastica è provato anche dal fatto che la sacra Liturgia ha strette attinenze con quei principi dottrinali che la Chiesa propone come facenti parte di certissime verità, e perciò deve conformarsi ai dettami della fede cattolica proclamati dall’autorità del supremo Magistero per tutelare la integrità della religione rivelata da Dio. A questo proposito, Venerabili Fratelli, riteniamo di porre nella sua giusta luce una cosa che pensiamo non esservi ignota: l’errore, cioè, di coloro i quali pretesero che la sacra Liturgia fosse quasi un esperimento del dogma, in quanto che se una di queste verità avesse, attraverso i riti della sacra Liturgia, portato frutti di pietà e di santità, la Chiesa avrebbe dovuto approvarla, diversamente l’avrebbe ripudiata. Donde quel principio: La legge della preghiera è legge della fede (Lex orandi, lex credendi). Non è, però, così che insegna e comanda la Chiesa. Il culto che essa rende a Dio è, come brevemente e chiaramente dice S. Agostino, una continua professione di fede cattolica e un esercizio della speranza e della carità: «Dio si deve onorare con la fede, la speranza e la carità». Nella sacra Liturgia facciamo esplicita professione di fede non soltanto con la celebrazione dei divini misteri, con il compimento del Sacrificio e l’amministrazione dei Sacramenti, ma anche recitando e cantando il Simbolo della fede, che è come il distintivo e la tessera dei cristiani, con la lettura di altri documenti e delle Sacre Lettere scritte per ispirazione dello Spirito Santo. Tutta la Liturgia ha, dunque, un contenuto di fede cattolica, in quanto attesta pubblicamente la fede della Chiesa. Per questo motivo, sempre che si è trattato di definire un dogma, i Sommi Pontefici e i Concili, attingendo ai cosiddetti «Fonti teologici», non di rado hanno desunto argomenti anche da questa sacra disciplina; come fece, per esempio, il Nostro Predecessore di immortale memoria Pio IX quando definì l’Immacolata Concezione di Maria Vergine. Allo stesso modo, anche la Chiesa e i Santi Padri, quando si discuteva di una verità controversa o messa in dubbio, non hanno mancato di chiedere luce anche ai riti venerabili trasmessi dall’antichità. Così si ha la nota e veneranda sentenza: “La legge della preghiera stabilisca la legge della fede” (Legem credendi lex statuat supplicandi). La Liturgia, dunque, non determina né costituisce il senso assoluto e per virtù propria la fede cattolica, ma piuttosto, essendo anche una professione delle celesti verità, professione sottoposta al Supremo Magistero della Chiesa, può fornire argomenti e testimonianze di non poco valore per chiarire un punto particolare della dottrina cristiana. Che se vogliamo distinguere e determinare in modo generale ed assoluto le relazioni che intercorrono tra fede e Liturgia, si può affermare con ragione che “la legge della fede deve stabilire la legge della preghiera”. Lo stesso deve dirsi anche quando si tratta delle altre virtù teologiche: “nella fede, nella speranza e nella carità preghiamo sempre con desiderio continuo”»[2] .

Papa Pio XII ci mostra in questo testo l’unica vera interpretazione da intendere sull’adagio Lex orandi, lex credendi. Nel caso di una verità controversa la Liturgia può fare luce perché essa è professio fidei sottoposta al Magistero della Chiesa e anzi, secondo questo principio, il motto dovrebbe essere rovesciato in lex credendi, lex orandi, cioè, che la legge della fede deve stabilire la legge della preghiera[3].

Questo sarà il filo conduttore che ci guiderà in questo anno nella nostra rubrica. Affronteremo, nel corso della storia della Chiesa, il rapporto tra Diritto e Liturgia ossia tra, la legge della fede e la legge della preghiera e vedremo come queste due leggi, in continua evoluzione, ci condurranno alla Lux operandi et vivendi, scoprendo così le congiunzioni tra diritto, fede, liturgia e vita.

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FONTI

[1]  Cfr. E. BAURA, M. DEL POZZO, Diritto e norma nella liturgia, 2016, Giuffrè editore.

[2]PP. Pio XII,  Mediator Dei, 1947.

[3] Cfr. PP. Paolo VI, Discorso alla cerimonia di offerta dei ceri1970.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(San Giovanni Paolo II)

 

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Gianluca Pitzolu

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