La proprietà essenziale della indissolubilità nel matrimonio sacramentale

proprietà
Annibale Carracci, Madonna Montalto, 1597-1598 ca., Londra, National Gallery

L’indissolubilità quale proprietà essenziale del matrimonio

L’unità e l’indissolubilità, come noto, sono proprietà essenziali di qualunque vincolo coniugale, anche non sacramentale; ai sensi del can. 1056, tuttavia, si riconosce loro una peculiare stabilità e maggiore fermezza nel matrimonio cristiano proprio “in ragione del sacramento”. Sul punto, il Magistero pontificio insegna che “in virtù della sacramentalità del loro matrimonio, gli sposi sono vincolati l’uno all’altra nella maniera più profondamente indissolubile. La loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa” [1].

Nel chiarire il significato più profondo della proprietà della indissolubilità – nota anche come bonum sacramenti – la Dottrina canonistica distingue tra indissolubilità intrinseca ed estrinseca. Con esse accezioni ci si riferisce rispettivamente alla impossibilità da parte degli stessi coniugi, da un lato, e dell’autorità pubblica, dall’altro, di sciogliere il vincolo validamente sorto con la manifestazione del consenso nuziale. Va comunque segnalato che in casi eccezionali, nell’ipotesi di matrimonio rato et non consummato, è possibile il ricorso alla Autorità ecclesiastica, per lo scioglimento del matrimonio in favorem fidei o, appunto, per inconsumazione.

Le forme di manifestazione del bonum sacramenti

Il bonum sacramenti assume una triplice manifestazione, segnatamente nella stabilità del vincolo, nella sua perpetuità e nella indissolubilità in senso stretto. La stabilità del vincolo affonda le sue radici nel disposto del can. 1096 che, per la validità del consenso, richiede che le parti “…almeno non ignorino che il matrimonio è la comunità permanente tra l’uomo e la donna, ordinata alla procreazione della prole mediante una qualche cooperazione sessuale”. Da un lato, quindi, la permanenza del vincolo è quell’elemento oggettivo minimo di cui i nubenti devono essere a conoscenza, perché sia loro possibile compiere la scelta matrimoniale con un sufficiente discernimento previo; dall’altro, la stabilità dell’unione matrimoniale risulta essere funzionale al perseguimento del fine procreativo e della educazione dei figli.

Per quanto attiene alla perpetuità del patto coniugale, essa è direttamente collegata alla diversità dei sessi e alla conseguente complementarità esistente tra uomo e donna, chiamati, per stessa inclinazione naturale, alla costituzione di una unione tra loro perpetua. Da ultimo, l’indissolubilità in senso stretto del matrimonio è il prodotto della mutua e incondizionata donazione dei coniugi, con la quale essi costituiscono un consorzio di tutta la vita, per cui il consenso nuziale manifestato non può essere né revocato, né posto a tempo determinato.

La nullità del matrimonio per esclusione della indissolubilità

Se, come detto, l’indissolubilità è una delle proprietà essenziali del matrimonio sacramentale, il suo rifiuto e la sua esclusione da parte di uno o entrambi in coniugi determinano la nullità del consenso prestato: ai sensi del can. 1101 § 2, infatti, chi, con positivo atto di volontà, esclude il matrimonio stesso oppure una sua proprietà o elemento essenziale, contrae invalidamente. L’esclusione di tale proprietà essenziale potrà poi diversamente declinarsi, laddove la positiva intentio escludente della parte vada ad incidere su una delle tre accezioni sopra dette di indissolubilità.

In particolare, l’esclusione della stabilità del vincolo si configura laddove la parte voglia contrarre un matrimonio ad experimentum, mantenendo ferma l’intenzione di costituire un vincolo solo occasionale; l’esclusione della perpetuità, invece, sussiste qualora il coniuge voglia unirsi in un matrimonio a tempo, riservandosi la facoltà di romperlo in un momento futuro determinato (es. fino alla maggiore età dei figli) ovvero indeterminato (es. finché permarrà l’amore). Sia nel caso della esclusione della stabilità che della perpetuità, il consenso nuziale cade direttamente su un matrimonio dissolubile.

Da ultimo, l’esclusione della indissolubilità in senso stretto sussiste quando il nubente, pur accettando in astratto la stabilità e la perpetuità del vincolo, si riservi il cd. ius divortiandi ossia la facoltà di sciogliere il matrimonio, anche ricorrendo al divorzio. Va poi rammentato come l’esclusione del bonum sacramenti possa verificarsi tanto in forma assoluta che ipotetica, laddove le parti dirigano il loro consenso direttamente verso un matrimonio dissolubile oppure condizionino l’indissolubilità alla permanenza del loro consenso, riservandosi quindi la facoltà di rompere il vincolo “si casus ferat”.

Va, tuttavia, precisato che ogni forma di esclusione, in quanto vizio genetico del consenso incidente sul matrimonio in fieri, ha sempre portata assoluta, e ciò anche nell’ipotesi della simulazione ipotetica: in tale ultimo caso, infatti, non è l’esclusione della indissolubilità a essere ipotetica, ma la verificazione dell’evento cui seguirebbe la rottura del coniugio.

L’incidenza della cd. “mentalità divorzista” sulla prova dell’esclusione dell’indissolubilità

Nell’ambito dei processi diretti all’accertamento della nullità matrimoniale per il capo della esclusione del bonum sacramenti, spesso emerge, in capo alla parte asseritamente simulante, una mentalità di tipo “divorzista”, ossia aperta e favorevole all’istituto del divorzio. Occorre tuttavia chiarire che, perché tale mentalità rilevi in termini di causa simulandi o di circostanza corroborante l’assunto di nullità, è necessario che sussista un nesso di causalità tra la stessa e l’invalidità del consenso. Non rileva, infatti, che la parte ammetta in astratto la percorribilità del divorzio, laddove la stessa non cali tale possibilità nel proprio concreto vissuto e rapporto di coppia; in altri termini, è necessario che la mentalità divorzista determini la volontà della parte e non resti circoscritta entro i confini dell’intelletto.

Ciò è chiarito in una coram Funghini, per cui l’effetto invalidante il consenso non consegue dalle generiche idee favorevoli al divorzio, inteso quale istituto percorribile nella astratta ipotesi di crisi matrimoniale, né dai discorsi, anche frequenti, circa la coerenza di esso istituto con una società sempre più secolarizzata; occorre, infatti, che tale mentalità determini ossia restringa il consenso matrimoniale e la volontà della parte che si unisce in matrimonio [2]. Allo stesso modo, San Giovanni Paolo II, in una sua allocuzione alla Rota Romana, chiariva come la presenza di una mentalità divorzista non fosse di per sé sufficiente a provare l’esclusione dell’indissolubilità.

Il Santo Padre magistralmente insegnava: “È innegabile che la corrente mentalità della società in cui viviamo ha difficoltà ad accettare l’indissolubilità del vincolo matrimoniale…Ma tale reale difficoltà non equivale “sic et simpliciter” ad un concreto rifiuto del matrimonio cristiano o delle sue proprietà essenziali. Tanto meno essa giustifica la presunzione, talvolta purtroppo formulata da alcuni Tribunali, che la prevalente intenzione dei contraenti, in una società secolarizzata e attraversata da forti correnti divorziste, sia di volere un matrimonio solubile tanto da esigere piuttosto la prova dell’esistenza del vero consenso” [3].

Note

[1] Esortazione Apostolica, Familiaris consortio, n. 13;

[2] cfr. Coram Funghini, sent. diei 5 iunii 1996, RRDec., LXXXVII, n. 4, pp. 436-437;

[3] Sanctus Ioannes Paulus II, Alloc. diei 21 ianuarii 2000, n. 4.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Carlotta Marciano di Scala

Avvocato in foro civile, dottoranda in diritto canonico.

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Vox Canonica nasce nell’anno 2020 dal genio di un gruppo di appassionati giovani studenti di diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense.

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