Il Rescriptum ex audientia Sanctissimi
«Il Vescovo diocesano prima di erigere — mediante decreto — un’associazione pubblica di fedeli in vista di diventare Istituto di vita consacrata o Società di vita apostolica di diritto diocesano, deve ottenere la licenza scritta del Dicastero per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di vita apostolica» [1]. Con questo brevissimo testo il Supremo Legislatore ha modificato le disposizioni del Diritto Canonico relative all’erezione di Associazioni pubbliche di fedeli che siano propedeutiche alla successiva erezione di un Istituto di vita consacrata, disponendo di fatto che al Decreto del Vescovo diocesano debba precedere una licenza scritta del competente Dicastero della Curia Romana. Le medesime disposizioni sono valevoli anche per le Società di vita apostolica. Nella prassi, la fase dell’erezione dell’Associazione pubblica dei fedeli è fondamentale, è la prima ed è necessaria alla successiva erezione dell’Istituto. Tale delicata fase è affidata alla cura del Vescovo diocesano che, a norma del can. 579 C.J.C., può erigere nella circoscrizione territoriale soggetta alla propria giurisdizione un Istituto di vita consacrata o una società di vita apostolica. Già questo momento genetico di un Istituto era stato oggetto di modifica in un precedente Rescriptum ex audientia Sanctissimi [2], intendendo ad validitatem la consultazione della Santa Sede, ma il più recente Rescritto dello scorso 15 giugno ha inteso ancor più attenzionare l’ambito prevedendo licenza scritta anche per l’erezione dell’Associazione pubblica di fedeli in vista per così dire in itinere, ovvero propedeutica all’erezione di un Istituto.
Una riflessione sulla potestas del Vescovo diocesano
Una delle opposizioni che sono emerse in questi giorni alla pubblicazione del Rescritto è stata, indubbiamente quella relativa ad una millantata “espropriazione” compiuta ai danni dei Vescovi diocesani da parte della Santa Sede in materia di potestà all’interno della propria Diocesi. Tale critica, che ribadiamo essere assolutamente intonata visto che il decreto è e rimane un decreto del Vescovo diocesano, offre un notevole spunto di riflessione sul concetto di plena potestas del Vescovo diocesano.
L’attributo plena potestas, nel precedente Codice era relativo al Romano Pontefice che godeva appunto della piena potestà di giurisdizione su tutta la chiesa universale. Anche l’attuale Codice conferma tale attribuzione al Romano Pontefice [3] come risulta dalla formulazione giuridica della definizione dogmatica del primato petrino [4]. Tuttavia il vigente Codice innova tale concetto attribuendo tale pienezza di potestà anche al Collegio dei Vescovi, come sancito al can. 336 C.J.C. ed indirettamente al Concilio ecumenico, can. 337 §1 C.J.C. Già in questa prima riflessione occorre una specifica che differenzi la potestà petrina da quella dei Vescovi; se infatti a riguardo della pienezza non v’è alcuna discordanza, ovvero non manca ad essa alcuna parte della giurisdizione, contenendo non solo le potiores partes della potestà suprema, ma la sua pienezza; più problematico è, invece il punto circa le conseguenze di tale attributo. E di fatti, la potestà del Romano pontefice, pur non escludendo quella dei Vescovi che ad esso è pienamente subordinata, non trae la sua origine esclusivamente da quella (potestà dei vescovi) in modo che possa porre atti di regime da solo, senza quelli [5]. Da quanto detto si potrebbe dedurre una difficoltà di attribuzione di una potestà piena al Vescovo diocesano, in collisione con quella del Romano pontefice. A ciò potrebbe ovviarsi dicendo che la pienezza della potestà è intesa in senso analogico di proporzionalità in relazione alla circoscrizione territoriale per i primi e all’universalità della Chiesa per il secondo. Tuttavia neppure questa interpretazione analogica può essere corretta infatti la pienezza è realmente tale solo in relazione all’attributo della superiorità e dunque decade con l’attributo dell’inferiorità. In ragione di quanto detto, sussiste una differenza di potestà e per tanto il Codice attuale, ma ancor prima il Concilio hanno evitato di attribuire alla potestà del Vescovo diocesano il carattere di plena, preferendo espressioni differenti [6].
La Riserva: tra potestà episcopale e Suprema Autorità
Se questo è vero altrettanto vero è che l’unica limitazione che la potestà del Vescovo diocesano ha è costituita dall’istituto della riserva che mette in luce la relatività della pienezza della potestà del Vescovo diocesano stesso. In particolare si configura quale limitazione all’esercizio della potestà di cui il Vescovo gode nel governo della sua Diocesi ed è messa in atto dal Supremo Legislatore, unico soggetto attivo della riserva. Si noti che il Decreto Christus Dominius, che di fatto è fonte del can. 381 §1 C.J.C., esclude dall’essere soggetto attivo il Collegio dei Vescovi che pure gode di plena potestas. Come ovvio, a tale riserva sono applicati dei criteri. Non bisogna sottovalutare la delicatezza dell’enunciazione di criteri in una materia che per soggetto ha direttamente la Suprema Autorità della Chiesa soprattutto alla luce di due assiomi, ovvero il principio per cui il legislatore non è tenuto alla sua stessa legge; ed il secondo per il quale l’autorità il cui esercizio sia normato non può dirsi suprema [7]. Sembra proprio quella appena esposta la ratio per cui il can. 333 C.J.C. al primo paragrafo spiega che l’autorità immediata di cui gode il Romano Pontefice sulle Chiese particolari garantisce e rafforza la potestà propria di cui godono i Vescovi nella propria Diocesi, potestà che gode anche dei caratteri di ordinari età ed immediatezza. Una nota di chiarimento va rivolta al destinatario della riserva che non sempre coincide con l’autore della riserva medesima. A tal proposito mons. Montini, già promotore di giustizia del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, spiega, e lo scrivente fa propria questa tesi, che la problematica del destinatario della riserva apre alla più complessa questione relativa alla potestà del Vescovo diocesano in rapporto alle strutture intermedie collegiali o personali della Chiesa facenti parte dell’articolazione della costituzione gerarchica. In altri termini potrebbe risultare minatoria per la potestà del Vescovo la competenza legislativa di Conferenze episcopali o apparati della Curia romana [8]. Resta comunque complicato stabilire a priori quali riserve la Suprema Autorità debba riservare a sé o attribuire ad altri organismi della Curia romana. Appare maggiormente sensato prevedere che il Supremo Legislatore possa valutare, alla luce del principio cardine della Salus animarum, quando e come esercitare la riserva.
Conclusione
In conclusione, il recente Rescritto del Supremo Legislatore, in una riflessione certamente più ampia dell’ambito particolareggiato cui si riferisce, porta a considerare che la Chiesa particolare esprime la sua dimensione universale nella chiara affermazione e concretizzazione della pienezza della potestà del suo Pastore proprio. La dimensione universale è costituita essenzialmente da due fattori, l’appartenenza del Vescovo al Collegio episcopale in comunione con il Romano Pontefice e l’essere della Chiesa particolare nella realtà degli elementi costitutivi della Chiesa corpo mistico di Cristo, ovvero l’annuncio della Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la presidenza ministeriale. Allo stesso tempo, tuttavia, l’essere universale della Chiesa particolare mostra il suo essere nei limiti della potestà del Vescovo diocesano, elemento essenziale per il manifestarsi dell’essere delle Chiese particolari elementi di composizione dell’universalità della Chiesa. Non a caso, infatti per essere tale l’ufficio del Vescovo diocesano necessita della compresenza simultanea di due elementi; pienezza e limitazione ove la seconda rafforza e giustifica la prima e insieme esprimono la comunione gerarchica che corrisponde alla costituzione stessa della Chiesa. Sembra pleonastico allora ribadire che il Rescritto esaminato non configura una limitazione alla potestà del Vescovo diocesano. Oltre al superfluo ribadire che l’atto è e rimane un atto proprio del Vescovo cui compete l’erezione dell’Associazione pubblica di fedeli nella circoscrizione territoriale affidata al suo governo, va sottolineato che la limitazione esercitata tramite l’ufficio della riserva implementa e conferma la pienezza di potestà in comunione con la Suprema Autorità della Chiesa ed evita, in maniera meno trascendentale ma pure assolutamente necessaria, errori di valutazione che possono commettersi in luogo di uffici locali spesso impreparati.
Note bibliografiche
[1] Rescriptum ex Audientia Sanctissimi, 15 giugno 2022, in L’Osservatore Romano.
[2] Si fa qui riferimento al Rescritto in modifica del can. 579 C.J.C. in vigore dal 1 giugno 2016.
[3] cfr. Cann. 331; 332 §1 C.J.C.
[4] DS 3064.
[5] cfr. S.Sipos, Enchiridion iuris canonici, Romae 19546, 147.
[6] cfr. G.B. Montini, Alcune riflessioni sull’omnis potestas del Vescovo diocesano, in Quaderni di Diritto Ecclesiale, IX (1996), 23-24.
[7] cfr. Ivi, 28.
[8] cfr. Ivi, 31-33.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
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