Combattere gli abusi: “Il velo del silenzio” e intervista a Salvatore Cernuzio

cernuzio

«Nel discernere e nell’accompagnare ci sono alcune attenzioni da tenere sempre vive. L’attenzione ai fondatori che a volte tendono ad essere autoreferenziali, a sentirsi gli unici depositari o interpreti del carisma, come se fossero al di sopra della Chiesa. L’attenzione alla pastorale vocazionale e alla formazione che si propone ai candidati. L’attenzione a come si esercita il servizio dell’autorità, con particolare riguardo alla separazione tra foro interno e foro esterno – tema che a me preoccupa tanto –, alla durata dei mandati e all’accumulo dei poteri. E l’attenzione agli abusi di autorità e di potere. Su questo ultimo tema ho avuto in mano un libro di recente pubblicazione, di Salvatore Cernuzio sul problema degli abusi, ma non degli abusi eclatanti, sugli abusi di tutti i giorni che fanno male alla forza della vocazione»[qui]


Così ha esordito il Santo Padre alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita apostolica e il libro in questione è “Il velo del silenzio. Abusi, violenze, frustrazioni, nella vita religiosa femminile“.

Vista l’importanza del tema sugli abusi, non solo sessuali, ma anche spirituali e di autorità, si offre al pubblico una recensione del testo, con alcuni approfondimenti dello stesso autore Salvatore Cernuzio, che Vox Canonica ha intervistato al riguardo.

Un libro dal taglio poliedrico

Il testo è prevalentemente una raccolta di testimonianze che l’autore, con coraggio e carità, ha raccolto, offrendo alle religiose, vittime di abuso, di potersi esprimere in pienezza.
Ma non è solo questo, l’opera consta anche di una eloquente Prefazione ad opera di Suor Nathalie Becquart xmcj, Sottosegretario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, e di una Introduzione di P. Giovanni Cucci sj, che ha precorso i tempi scrivendo un articolo al riguardo, per Civiltà Cattolica[qui] Inoltre, in chiusura, contiene un’intervista allo psichiatra psicoterapeuta Tonino Cantelmi e un contributo, dal profilo canonistico, del professor Giorgio Giovanelli, che indica alcuni strumenti percorribili dalle religiose.

Il testo appare così ricco e poliedrico, consentendo al lettore un primo approccio alle dinamiche sottostanti agli abusi

Viene posta in risalto la strumentalizzazione del voto di obbedienza; l’erronea interpretazione del servizio dell’autorità, ed emergono, inoltre, atteggiamenti che sembrano venir fuori da una vita religiosa che si sperava mai esistita, o quantomeno ormai passata. Anche la vita fraterna sembra mancare di vera fraternità e misericordia, oscurata da atteggiamenti, velati e non velati, di razzismo e mortificazione in dignità.

Si lascia al pubblico il desiderio di approfondire il testo, qui preme richiamare che alla base degli abusi, che certamente nascondono problemi umani, psicologici e spirituali di chi li attua, vi possono essere dinamiche che devono essere sradicate totalmente dalla vita religiosa.

Lasciamo ora la parola all’ Autore, il giornalista e vaticanista Salvatore Cernuzio


RingraziandoLa per aver “strappato un lembo del velo sul tema degli abusi” Le chiedo:

Come mai ha scelto di occuparsi degli abusi esclusivamente nella vita religiosa femminile?

Credo che sia una tematica rimasta ancora inesplorata. In passato la questione è emersa gradualmente, ma più che altro per denunciare scandali sessuali. Mai, che ricordi, si è parlato di quelli che sono – come ha detto più volte Papa Francesco – gli abusi che preparano il terreno alle violenze dal punto di vista sessuale, cioè gli abusi di potere e di coscienza. Mi sono allertato quando sono state pubblicate le prime inchieste in merito su Donne Chiesa Mondo e La Civiltà Cattolica. Mi ero ripromesso di approfondire il tema dopo aver realizzato un reportage sulla casa delle scalabriniane a Roma che accoglie ex suore finite per strada, vittime di situazioni umanamente difficili. L’incontro con una cara amica d’infanzia, ex suora, mi ha fatto però capire l’urgenza di approfondire questo lavoro. Dodici anni fa questa ragazza era entrata in un monastero di clausura in Centro Italia e lì pensavo che ancora fosse. Soprattutto pensavo che fosse felice, che la sua vocazione fosse solida e che si stesse, in un certo senso, anche realizzando umanamente svolgendo compiti prestigiosi nell’ordine. Un giorno d’estate mi sono ritrovato una persona emotivamente distrutta, fisicamente trasandata, psicologicamente fragile. Mi ha accennato alla sua storia: cacciata via in pieno lockdown da quella che era stata la sua casa per 12 anni, emarginata da quelle che chiamava sorelle, problemi di salute psicologica trascurati e di cui la congregazione non aveva voluto farsi carico. Ho pensato: chissà quante come lei. E soprattutto chissà quante straniere che, oltre agli abusi subiti, devono affrontare la mancanza di soldi, di istruzione, di documenti, di un sostegno familiare. Allora è iniziata la mia ricerca.

In che cosa intravede la radice prima di questi abusi?

Chiusura, clericalismo e, dispiace dirlo, anche cattiveria. Un’istintiva cattiveria umana che è la stessa che si respira in qualsiasi luogo comunitario, ambienti di lavoro, ecc, fatta di invidie, frustrazioni, incapacità di accettare l’altro. Parlo invece di chiusura perché ci troviamo di fronte a realtà che sono come isole a sé stanti, dove, nonostante la vita comunitaria, vige un forte individualismo. Ogni suora – da quello che molte raccontano – deve in un certo qual modo sopravvivere a sé stessa, alle altre, a una vita fatta di regole e orari di lavoro schiaccianti, che impediscono anche l’approfondimento della vita spirituale e la maturità vocazionale. Una ragazza, ad esempio, racconta nel libro di aver avuto l’impressione di vivere sotto un regime comunista, dove più si lavorava più si era considerate buone suore. E tutta questa mole di lavoro le impediva pure di avere spazio per pregare. Ciò, naturalmente, genera delle crisi che però vengono messe a tacere con sintagmi del tipo: “Prega di più”, “lavora di più”, “obbedisci”. Tutto viene ricondotto a chi ha ruoli di autorità all’interno degli ordini, raramente ci si rivolge ad uno specialista esterno quale uno psicologo o un consulente, inseguendo la vecchia idea che questo potrebbe provocare scandalo o sminuire il buon nome dell’istituto. Sta qui, credo, la principale chiusura. Poi il fatto che se una suora soffre, mostra problematiche – soprattutto psicologiche -, la cosa non si affronta a livello comunitario, inteso anche come un semplice pregare l’una per l’altra. Anzi. Una donna intervistata mi diceva che a lei, quando ha mostrato forme depressive, le fu detto di non dire niente a nessuno, soprattutto alle più “piccole”, perché poteva essere di cattivo esempio.

Quanto al clericalismo mi riferisco a quel sentirsi e, di conseguenza, agire come se si fosse in possesso di una grazia superiore solo in virtù del ruolo. Da qui l’idea di autorità confusa con autoritarismo, la tendenza a identificarsi e far identificare il proprio volere con la volontà di Dio, fino a imporlo rigidamente alla comunità. Tanto che una novizia, ad esempio, arriva al punto di mischiare la volontà di Dio col benestare della superiora.

Come strutturare nuovi percorsi di formazione e accompagnamento all’interno degli Istituti religiosi su tali tematiche?

Penso che ci sia un’intera impostazione di base da riformulare. Bisogna anzitutto cominciare a ripensare i criteri di ingresso in monasteri e conventi; va poi rimodellata la formazione rimasta, il più delle volte, impantanata in schemi preconciliari o addirittura patriarcali.

Credo che bisogna ricominciare da un piano umano. Serve tanto, tanto ascolto, poi empatia con la sofferenza altrui, dalla quale scaturisce l’atteggiamento di “cura” a cui ci invita il Papa. È recuperando quell’umanità che spesso sembra mancare in queste situazione, magari non verrebbero più usate leggi e regole per schiacciare le persone, non si strumentalizzerebbero le debolezze per dire a una ragazza che sente il fuoco della vocazione “non sei una brava suora”, così come non si liquiderebbe chi interrompe il cammino religioso con “ah, ma lei non era obbediente”, come se la vocazione fosse una sorta di capacità di resistenza a vessazioni, sacrifici, violenze. Il percorso sinodale credo che, in tal senso, possa essere di grande aiuto, anche per favorire un’apertura verso l’esterno ed eventuali supporti per le situazioni di crisi.


Come crede che la Chiesa debba agire per arginare, con maggiore successo, queste dinamiche?

La Chiesa dovrebbe instaurare un filo più diretto con questi mondi che, come dicevamo, risultano essere troppo chiusi. Nel pratico significherebbe intensificare i controlli anche per individuare eventuali situazioni di abuso altrimenti sottaciuti. Non si tratta di violenze visibili, come uno stupro o una molestia, ma di abusi subdoli che creano un’auto colpevolezza nella vittima (“Ho pensato che mi fossi ammalata di depressione perché Dio mi stava punendo per non aver pregato abbastanza”, racconta una ragazza nel libro), atteggiamento che può permanere per sempre in una persona fino a quando non trova qualcuno le apra gli occhi. Perciò sarebbe necessario introdurre referenti esterni che creino situazioni di dialogo e ascolto. Soprattutto ascolto, che è l’indirizzo offertoci dal Papa in questo percorso sinodale. Ascolto che significa anche dare credito alle vittime, e non considerarle come elementi di disturbo, ribelli, psicopatiche o, addirittura, da esorcizzare, ma per quello che sono: persone che soffrono.


In conclusione, essendo certa che, seppur tali situazioni siano marginali all’interno degli IR, è bene esserne coscienti e vigilare, affinché vi sia una continua purificazione,  alla luce del Vangelo, il Quale ci presenta un Dio profondamente umano e umanizzante, poichè:

“La vita consacrata è un dono prezioso e necessario al popolo di Dio, perché appartiene intimamente alla sua vita, alla sua santità, alla sua missione (VC n.3a)”

Essa ha ancora tanto di bello, di buono e di santo da offrire, se purificata da tali dinamiche, cercherà con sempre maggior impegno il Volto di Dio nel Volto dell’Altro.

La ringrazio come donna, come canonista e come religiosa, del Suo vivo interesse per tutte noi.

Solo la cura reciproca di tutti i battezzati può consentire, a ciascun membro del Popolo di Dio, di camminare su una via che sia veramente evangelica.

Custodiamoci vicendevolmente nella Verità.

 

Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit

(San Giovanni Paolo II)

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Sr. Maria Romano

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