L’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo

assoluzione

Cenni storici

Fino al secolo XVII l’assoluzione del complice non era considerata affatto un delitto, anzi era ritenuta pienamente valida e lecita.

Solo grazie alla costituzione Sacramentum poenientiae del 1 giugno 1741 di Benedetto XIV, venne configurato come illecito penale[1].

Nel codice Pio-Benedettino il presente delitto era regolato nel canone 2367 in modo più severo che nel codice attuale. Veniva infatti punito sia il sacerdote che assolveva il complice, sia il sacerdote che fingeva di impartire l’assoluzione a questi.

Inoltre, non era consentito assolvere il complice neanche in pericolo di morte, a meno che non ci fosse la possibilità di ricorrere, senza rischio di infamia o di scandalo, a un altro sacerdote anche se privo della facoltà di confessare, o se pur essendovi, questo si rifiutasse di ascoltare la confessione, o ancora qualora il moribondo ricusasse di confessarsi con altri sacerdoti[2].

L’attuale normativa

La disposizione dell’attuale Codice di Diritto Canonico prevede che l’assoluzione del complice di un peccato contro il sesto comandamento, tranne il caso di pericolo di morte, sia invalida. In rapporto alla condotta dei soggetti interessati, può accadere infatti che il sacerdote si trovi ad assolvere una persona con lui complice in peccato contro la castità.

La Chiesa non tollera che ciò possa avvenire, poiché ciò è lesivo della santità e riverenza dovuta al sacramento, e vi provvede con le norme dei canoni che seguono:

Canone 977: «L’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo è invalida, eccetto che in pericolo di morte»

Canone 1384[3]: «Il sacerdote che agisce contro il disposto del can. 977, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica»

Il comportamento presupposto dal canone 977 CIC, prevede che:

  1. non ci sia il pericolo di morte
  2. sia stato commesso un peccato contro la castità (e pertanto sono escluse le complicità per altri peccati)
  3. il peccato sia stato confessato e sia grave ed esterno
  4. ci sia stata una reale complicità da parte di almeno due persone (adesione formale interiore ed esteriore)

Ricorrendo queste condizioni, il sacerdote non potrà dare assoluzione al penitente-complice proprio per la presenza nell’accusa di questo peccato e, pertanto, l’assoluzione sarà considerata invalida.

Analisi della fattispecie

Andando ad esaminare più da vicino i canoni sopra citati, per ciò che attiene l’eccezione del pericolo di morte, essa sta a significare che il fine supremo della Chiesa, la salus animarum, deve essere sempre salvaguardato. Alcuni autori si chiedono se al pericolo di morte non possano essere equiparati casi di gravissima necessità[4], come avviene peraltro in altri contesti sacramentali.

Questa estensione tuttavia non può essere accettata, sia perché il concetto di pericolo di morte è già abbastanza esteso, sia perché in altri casi non vi è questione di validità, ma solo di liceità.

Inoltre affinché si verifichi la fattispecie delittuosa, si richiede che ci sia una grande complicità. Il  peccato poi deve essere stato grave per entrambe le parti, sia materialmente che formalmente, e deve essere esterno.  Questo comporta una grave colpa morale, per cui ove questa non sussista, anche solo da parte del complice, non vi sarà peccato e di conseguenza nemmeno il delitto in parola, per mancanza dell’elemento costitutivo della complicità. Ad esempio, se un sacerdote ha violato il sesto comandamento con un minore di età inferiore ai 7 anni, non si configurerà il delitto, per il fatto che il bambino non ha ancora raggiunto l’età della ragione o la discrezione necessaria per commettere peccato grave[5]. Questo significa che delitti oltremodo odiosi ed abietti non ricadono in questa fattispecie delittuosa. Ciò non deve meravigliare, in quanto il delitto di assoluzione del complice ha principalmente di mira la tutela del sacramento della penitenza.

Ad esempio, nel caso poc’anzi esaminato, il sacerdote, risponderà di delictum contra sextum cum minore, ma non del delitto di attentata assoluzione. Chiaramente, se oltre al bambino vi furono altri complici, è ovvio che in questo caso la complicità potrà sussistere tra il sacerdote e queste persone[6]. Si pensi ad esempio, all’ipotesi in cui il peccato contro il sesto comandamento venga compiuto non solo con il minore, ma con altre persone adulte che poi successivamente il sacerdote ha provveduto ad assolvere[7].

Il delitto dunque deve essere stato commesso da almeno due persone, e una di esse deve essere il sacerdote che poi assolve. Non è però necessario che il sacerdote abbia tale qualità al momento della commissione del peccato contro il sesto comandamento, essendo sufficiente che egli rivesta tale qualità nel momento in cui assolve il complice, anche se appunto, all’epoca della violazione del sesto comandamento da lui commessa con altri, era un semplice laico o un diacono[8].

Ma per quale motivo il canone parla di “sacerdote” non parla di “confessore”?  La risposta è di facile soluzione. Si fa rifermento al sacerdote, perché che in ogni caso, l’assoluzione sarà considerata invalida. Questo significa che il delitto in esame può essere commesso anche da un sacerdote privo della facultas absvolvendi di cui al can. 966 CIC[9].

Non pochi autori ritengono che il soggetto del delitto di assoluzione del complice sia esclusivamente il presbitero, con esclusione del vescovo[10]. L’argomentazione prende le mosse dal can. 18 CIC, secondo cui nel diritto penale l’interpretazione stretta è obbligatoria, e il termine sacerdote, interpretato strettamente, escluderebbe il vescovo. La posizione tuttavia pare non possa essere sostenuta, poiché il Codice presenta una voce propria per indicare il sacerdote ad esclusione del vescovo, ovvero del presbitero, e non usa mai la parola sacerdote per indicare esclusivamente il presbitero. Pertanto escludere il vescovo nel nostro caso sarebbe un’interpretazione restrittiva, più che un’interpretazione stretta.

Il delitto in esame non avrà luogo nel caso in cui il complice abbia già confessato il proprio peccato ad un altro confessore[11] e qualora il sacerdote che impartisce l’assoluzione, ignori che il penitente sia in realtà il suo complice. A norma del can. 1321 §3[12], il sacerdote deve aver agito con dolo, cioè violando deliberatamente la legge. In questo caso troverebbe senz’altro applicazione la disposizione di cui al can. 1323 n. 2 CIC, secondo cui “Non è passibile di alcuna pena chi, quando violò la legge o il precetto senza sua colpa ignorava di violare una legge o un precetto”. Potrebbe infatti accadere che il sacerdote, pur conoscendo l’esistenza della fattispecie delittuosa in parola, ritenga che il penitente non sia in realtà suo complice e creda, pertanto di assolvere dal peccato contro il sesto comandamento un fedele diverso da colui il quale ha precedentemente perpetrato il peccato in questione.

La pena

La pena prevista per l’assoluzione del complice è la scomunica latae sententiae, riservata alla competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede. La scomunica per il sacerdote che tentasse di assolvere è dunque tra quelle più gravi, poiché non ha bisogno di essere irrogata ma colpisce ipso facto e non potrà essere rimessa se non dalla Santa Sede, tramite la Penitenzieria Apostolica[13], per il foro interno, o in foro esterno dalla Congregazione per la Dottrina della Fede[14].

Note bibliografiche

[1] Vedi PIO IX, cost. Apostolicae Sedis (12 ottobre 1869) par. 1, n. 10, in Codicis iuris canonici fontes, cura Emi P. Card. Gasparri editi, v. III, Typis polyglottis vaticanis, Romae, 1925, p. 26, in cui era stabilita la pena della scomunica latae sententiae speciali modo Romano Pontefici reservate, per coloro che assolvessero “complicem in peccato turpi etiam in mortis articulo, si alius Sacerdos licet non adprobatus ad confessiones, sine gravi aliqua exoritura infamia et scandalo, possit excipere morientis confessionem”.

[2] C. Papale, Il processo penale canonico. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro VII, Parte IV, UUP, Città del Vaticano 2012, p. 207.

[3] Canone modificato con la Cost. ap. Pascite gregem Dei promulgata il 23 maggio 2021. Nella precedente numerazione del libro VI, era il can. 1378 §1.  La revisione del libro sesto del Codice di diritto canonico sarà promulgata con la pubblicazione su L’Osservatore Romano ed entrerà in vigore dall’8 dicembre 2021.

[4] Cfr. J. Manzanares J., Penitentia, in MANZANARES – A. MOSTAZA – J.L SANTOS, Nuevo Derecho Parroquial, Madrid 1994, p. 287, nota 46.

[5] Cfr. Can. 11: “Alle leggi puramente ecclesiastiche sono tenuti i battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti, e che godono di sufficiente uso di ragione e, a meno che non sia disposto espressamente altro dal diritto, hanno compiuto il settimo anno di età”; Cfr. Can. 97 §2 – “Il minorenne, prima dei sette anni compiuti, viene detto bambino e lo si considera non responsabile dei suoi atti, compiuti però i sette anni, si presume che abbia l’uso di ragione”.

[6] C. Papale, Il processo penale canonico, p. 208.

[7] Vedi V. De Paolis, De sanctionibus in Ecclesia. Adnotationes in codicem: liber VI, PUG, Roma 1986, p. 115.

[8] A. Calabrese, Diritto penale canonico, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, p. 233.

[9]Can. 966 §1 – “Per la valida assoluzione dei peccati si richiede che il ministro, oltre alla potestà di ordine, abbia la facoltà di esercitarla sui fedeli ai quali imparte l’assoluzione”. §2 – “Il sacerdote può essere dotato di questa facoltà o per il diritto stesso o per concessione fatta dalla competente autorità a norma del Can. 969”.

[10] Cfr. A. Calabrese, Diritto penale canonico, p. 319.

[11] D. Astigueta, El Motu Proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela, Revista Espanola de Derecho Canonico, 14 §(2008) 164, p. 229.

[12] Canone modificato con la Cost. ap. Pascite gregem Dei.

[13] Cfr. Sacra Paenitentiaria Apostolica, Instructio Suprema Ecclesiae Bona, 15 luglio 1984, in EV/S1, Bologna 1990, nn. 902-904.

[14] G. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (Cann. 1378; 1387; 1388), in Le sanzioni della Chiesa, Glossa Milani, 1997, p. 221.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)

 

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Maria Cives

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