Lello Lopez, olio su tela, collezione privata
Il grave difetto di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali
L’individuazione della nozione di discrezione non è agevole [1] e non ogni suo difetto rende il consenso matrimoniale inefficace ma solo quello inerente i diritti e doveri essenziali del matrimonio e che sia anche grave, cioè tale da inficiare la capacità volitiva e valutativa di chi lo pone in essere al punto da non permettergli di prestare una psicologicamente sufficiente e specifica deliberazione matrimoniale. Ne segue che non rientrano nella fattispecie de quo le cause facilmente sanabili – come l’ignoranza o l’inadeguata preparazione – né le difficolta inerenti a qualsiasi impegno di vita [2].
La dottrina parla anche di difetto di libertà interna, intendendo la mancanza della maturità psicologica specificamente richiesta per il matrimonio e non quella comune. Cioè, non basta il sufficiente uso di ragione. In altri termini, la discrezione di giudizio attiene alla volontà e all’intelletto insieme. Oggetto di essa sono i diritti e doveri essenziali del matrimonio, atteso che ai nubendi è richiesta una conoscenza ponderata del matrimonio concreto che stanno celebrando con quella determinata persona e non una conoscenza dettagliata e specifica di tutte le sue implicazioni. Essa non va confusa con l’errore, l’inavvertenza o la non percezione.
Quando si ha il difetto di discrezione di giudizio
Il difetto di discrezione di giudizio deve essere grave – in senso giuridico e non clinico, pertanto, la gravità viene giudicata dal giudice e non dal perito, sempre antecedente e concomitante, e non necessariamente perpetuo. Si potrebbe esemplificativamente dire che il difetto in questione si ha quando non c’è sufficientemente conoscenza intellettuale dell’oggetto e della natura del matrimonio, quando manca una sufficiente valutazione critica, quando manca una sufficiente libertà interna. La causa che toglie la predetta libertà è sempre di natura interna.
Inoltre, l’oggetto ed il titolo del consenso matrimoniale è la stessa persona, in quanto uomo o donna, a donarsi titolo di debito, ed è la persona dell’altro nubente, in quanto donna o uomo, ad essere accettata a titolo di diritto – richiedono un grado di maturità del contraente, superiore non solo al mero uso della ragione, ma anche a quello necessario per molte attività che si pongono in essere nella vita. E’ questa l’esigenza che il legislatore raccoglie, sancendo l’incapacità consensuale di chi soffra di un difetto grave della discrezione di giudizio riguardo ai diritti ed ai doveri matrimoniali essenziali da dare ed accettare nel prestare un consenso matrimoniale valido [3].
Bisogna evidenziare che l’espressione discrezione di giudizio non si riferisce tanto alla ricchezza di conoscenza o alla percezione intellettuale sufficiente (tema legato alla conoscenza minima del matrimonio richiesta al can. 1096), quanto a quel grado di maturità personale che permette al contraente una comprensione della situazione tale da poter assumere impegni rispetto ai diritti e doveri matrimoniali essenziali. Pertanto, si ha difetto grave quando si prova che il contraente è privo della maturità intellettiva e volitiva necessaria per discernere, in ordine all’impegno che viene assunto in modo irrevocabile [4], i diritti ed i doveri essenziali del matrimonio, che devono essere oggetto di reciproca donazione ed accettazione.
La prova processuale
L’oggetto della prova è la realtà giuridica; accertare cioè se esista una seria anomalia, che sia grave e quale incidenza abbia sul consenso. In questa prospettiva, i mezzi istruttori idonei sono: le dichiarazioni delle parti, quelle dei testi e la perizia che, in questi casi, è obbligatoria ex can. 1680 CIC. Riguardo alla perizia, la legge richiede che il giudice si serva della collaborazione di periti, uno o più a discrezione del giudice stesso, a meno che lo si ritenga evidentemente inutile in considerazione delle circostanze concrete [5]. Spetta sempre al giudice valutare la perizia alla luce degli atti [6]. Giovanni Paolo II ha ricordato ai giudici ecclesiastici che devono esaminare i presupposti antropologici su cui si basa il perito per valutare se sono compatibili con l’antropologia cristiana [7].
Tuttavia, quando le conclusioni dei periti sono concordi, ed alla loro perizia dettagliata e svolta secondo le modalità previste dalla legge si somma la personale concezione cristiana della vita, è ragionevole che il giudice non intenda discostarsi dalle conclusioni della perizia, a meno che non si diano ragioni contrarie assai gravi [8]. In ogni caso, il tribunale nel motivare la sua sentenza deve dichiarare le ragioni che spingono ad ammettere o a rigettare le conclusioni dei periti.
Note
[1] Cfr. coram Parisella del 28 ottobre 1976.
[2] Cfr. coram Felice 8 marzo 1975.
[3] C.I.C.
[4] Cfr. i cc. 1055 p. 1 e 1057 p. 2.
[5] Cfr. Segnatura apostolica, risp. del 16.VI. 1998, Prot. N. 28252/97 VT.
[6] Can. 1579 CIC.
[7] Cfr. alloc. alla Rota romana, 5.11.1997, in AAS 79 , 1987, 1453-1459.
[8] C. Felici, 3. XII. 1957, RRD 49, 791, 7.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
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